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Santa Messa in occasione della Prima Giornata Mondiale dei Poveri, 19.11.2017


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Alle ore 10 di oggi, XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Celebrazione Eucaristica in occasione della Prima Giornata Mondiale dei Poveri.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato, dopo la proclamazione del Vangelo:

Omelia del Santo Padre

Abbiamo la gioia di spezzare il pane della Parola, e tra poco di spezzare e ricevere il Pane eucaristico, nutrimenti per il cammino della vita. Ne abbiamo bisogno tutti, nessuno escluso, perché tutti siamo mendicanti dell’essenziale, dell’amore di Dio, che ci dà il senso della vita e una vita senza fine. Perciò anche oggi tendiamo la mano a Lui per ricevere i suoi doni.

Proprio di doni parla la parabola del Vangelo. Ci dice che noi siamo destinatari dei talenti di Dio, «secondo le capacità di ciascuno» (Mt 25,15). Prima di tutto riconosciamo questo: abbiamo dei talenti, siamo “talentuosi” agli occhi di Dio. Perciò nessuno può ritenersi inutile, nessuno può dirsi così povero da non poter donare qualcosa agli altri. Siamo eletti e benedetti da Dio, che desidera colmarci dei suoi doni, più di quanto un papà e una mamma desiderino dare ai loro figli. E Dio, ai cui occhi nessun figlio può essere scartato, affida a ciascuno una missione.

Infatti, da Padre amorevole ed esigente qual è, ci responsabilizza. Vediamo che, nella parabola, a ogni servo vengono dati dei talenti da moltiplicare. Ma, mentre i primi due realizzano la missione, il terzo servo non fa fruttare i talenti; restituisce solo quello che aveva ricevuto: «Ho avuto paura – dice – e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (v. 25). Questo servo riceve in cambio parole dure: «malvagio e pigro» (v. 26). Che cosa non è piaciuto al Signore di lui? In una parola, forse andata un po’ in disuso eppure molto attuale, direi: l’omissione. Il suo male è stato quello di non fare il bene. Anche noi spesso siamo dell’idea di non aver fatto nulla di male e per questo ci accontentiamo, presumendo di essere buoni e giusti. Così, però, rischiamo di comportarci come il servo malvagio: anche lui non ha fatto nulla di male, non ha rovinato il talento, anzi l’ha ben conservato sotto terra. Ma non fare nulla di male non basta. Perché Dio non è un controllore in cerca di biglietti non timbrati, è un Padre alla ricerca di figli, cui affidare i suoi beni e i suoi progetti (cfr v. 14). Ed è triste quando il Padre dell’amore non riceve una risposta generosa di amore dai figli, che si limitano a rispettare le regole, ad adempiere i comandamenti, come salariati nella casa del Padre (cfr Lc 15,17).

Il servo malvagio, nonostante il talento ricevuto dal Signore, che ama condividere e moltiplicare i doni, l’ha custodito gelosamente, si è accontentato di preservarlo. Ma non è fedele a Dio chi si preoccupa solo di conservare, di mantenere i tesori del passato. Invece, dice la parabola, colui che aggiunge talenti nuovi è veramente «fedele» (vv. 21.23), perché ha la stessa mentalità di Dio e non sta immobile: rischia per amore, mette in gioco la vita per gli altri, non accetta di lasciare tutto com’è. Solo una cosa tralascia: il proprio utile. Questa è l’unica omissione giusta.

L’omissione è anche il grande peccato nei confronti dei poveri. Qui assume un nome preciso: indifferenza. È dire: “Non mi riguarda, non è affar mio, è colpa della società”. È girarsi dall’altra parte quando il fratello è nel bisogno, è cambiare canale appena una questione seria ci infastidisce, è anche sdegnarsi di fronte al male senza far nulla. Dio, però, non ci chiederà se avremo avuto giusto sdegno, ma se avremo fatto del bene.

Come, concretamente, possiamo allora piacere a Dio? Quando si vuole far piacere a una persona cara, ad esempio facendole un regalo, bisogna prima conoscerne i gusti, per evitare che il dono sia più gradito a chi lo fa che a chi lo riceve. Quando vogliamo offrire qualcosa al Signore, troviamo i suoi gusti nel Vangelo. Subito dopo il brano che abbiamo ascoltato oggi, Egli dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Questi fratelli più piccoli, da Lui prediletti, sono l’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato. Sui loro volti possiamo immaginare impresso il suo volto; sulle loro labbra, anche se chiuse dal dolore, le sue parole: «Questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Nel povero Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore. Quando vinciamo l’indifferenza e nel nome di Gesù ci spendiamo per i suoi fratelli più piccoli, siamo suoi amici buoni e fedeli, con cui Egli ama intrattenersi. Dio lo apprezza tanto, apprezza l’atteggiamento che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, quello della «donna forte» che «apre le sue palme al misero, stende la mano al povero» (Pr 31,10.20). Questa è la vera fortezza: non pugni chiusi e braccia conserte, ma mani operose e tese verso i poveri, verso la carne ferita del Signore.

Lì, nei poveri, si manifesta la presenza di Gesù, che da ricco si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Per questo in loro, nella loro debolezza, c’è una “forza salvifica”. E se agli occhi del mondo hanno poco valore, sono loro che ci aprono la via al cielo, sono il nostro “passaporto per il paradiso”. Per noi è dovere evangelico prenderci cura di loro, che sono la nostra vera ricchezza, e farlo non solo dando pane, ma anche spezzando con loro il pane della Parola, di cui essi sono i più naturali destinatari. Amare il povero significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali.

E ci farà bene: accostare chi è più povero di noi toccherà la nostra vita. Ci ricorderà quel che veramente conta: amare Dio e il prossimo. Solo questo dura per sempre, tutto il resto passa; perciò quel che investiamo in amore rimane, il resto svanisce. Oggi possiamo chiederci: “Che cosa conta per me nella vita, dove investo?” Nella ricchezza che passa, di cui il mondo non è mai sazio, o nella ricchezza di Dio, che dà la vita eterna? Questa scelta è davanti a noi: vivere per avere in terra oppure dare per guadagnare il cielo. Perché per il cielo non vale ciò che si ha, ma ciò che si , e «chi accumula tesori per sé non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Non cerchiamo allora il superfluo per noi, ma il bene per gli altri, e nulla di prezioso ci mancherà. Il Signore, che ha compassione delle nostre povertà e ci riveste dei suoi talenti, ci doni la sapienza di cercare ciò che conta e il coraggio di amare, non a parole ma coi fatti.

[01739-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Nous avons la joie de rompre le pain de la Parole, et d’ici peu de rompre et de recevoir le Pain eucharistique, nourritures pour le chemin de la vie. Nous en avons tous besoin, personne n’est exclu, parce que nous sommes tous des mendiants de l’essentiel, de l’amour de Dieu, qui nous donne le sens de la vie et une vie sans fin. Donc aujourd’hui aussi tendons la main vers Lui pour recevoir ses dons.

La parabole de l’Evangile parle justement de dons. Elle nous dit que nous sommes destinataires des talents de Dieu, «à chacun selon ses capacités» (Mt 25, 15). Avant tout reconnaissons ceci: nous avons des talents, nous sommes «talentueux» aux yeux de Dieu. Par conséquent personne ne peut penser être inutile, personne ne peut se dire si pauvre au point de ne pas pouvoir donner quelque chose aux autres. Nous sommes choisis et bénis par Dieu, qui désire nous combler de ses dons, plus qu’un papa et une maman désirent donner à leurs enfants. Et Dieu, aux yeux de qui aucun enfant ne peut être écarté, confie à chacun une mission.

En effet, comme un Père aimant et exigeant qu’il est, il nous responsabilise. Nous voyons que, dans la parabole, des talents à multiplier sont donnés à chaque serviteur. Mais, tandis que les deux premiers réalisent la mission, le troisième serviteur ne fait pas fructifier les talents; il restitue seulement ce qu’il avait reçu: «J’ai eu peur – dit-il - et je suis allé cacher ton talent dans la terre. Le voici. Tu as ce qui t’appartient» (v. 25). Ce serviteur reçoit en échange des paroles dures: «mauvais et paresseux» (v. 26). Qu’est-ce qui en lui n’a pas plu au Seigneur? En un mot, peut-être tombé un peu en désuétude mais très actuel, je dirais: l’omission. Son mal a été de ne pas faire le bien. Nous aussi souvent nous sommes dans l’idée de n’avoir rien fait de mal et pour cela nous nous contentons, présumant être bons et justes. Ainsi, cependant, nous risquons de nous comporter comme le serviteur mauvais: lui aussi n’a rien fait de mal, il n’a pas abimé le talent, au contraire, il l’a bien conservé sous la terre. Mais ne rien faire de mal ne suffit pas. Parce que Dieu n’est pas un contrôleur à la recherche de billets non compostés, il est un Père à la recherche d’enfants à qui confier ses biens et ses projets (cf. v. 14). Et c’est triste quand le Père de l’amour ne reçoit pas une réponse généreuse d’amour de ses enfants qui se limitent à respecter les règles, à s’acquitter des commandements, comme des salariés dans la maison du Père (cf. Lc 15, 17).

Le serviteur mauvais, malgré le talent reçu du Seigneur, qui aime partager et multiplier ses dons, l’a jalousement conservé, il s’est contenté de le préserver. Mais celui qui se préoccupe seulement de conserver, de garder les trésors du passé n’est pas fidèle à Dieu. Au contraire, dit la parabole, celui qui ajoute des talents nouveaux est vraiment «fidèle» (v.v. 21.23), parce qu’il a la même mentalité que Dieu et ne reste pas immobile: il risque par amour, il met en jeu sa vie pour les autres, il n’accepte pas de tout laisser comme c’est. Il omet seulement une chose: ce qui lui est utile à lui. Voilà l’unique omission juste.

L’omission est aussi le grand péché par rapport aux pauvres. Ici, elle prend un nom précis: indifférence. C’est dire: “ Cela ne me regarde pas, ce n’est pas mon affaire, c’est la faute de la société”. C’est se tourner de l’autre côté quand le frère est dans le besoin, c’est changer de chaîne dès qu’une question sérieuse nous gêne, c’est aussi s’indigner devant le mal sans rien faire. Dieu, cependant ne nous demandera pas si nous avons eu une juste indignation, mais si nous avons fait du bien.

Comment, concrètement, pouvons-nous alors plaire à Dieu? Quand on veut faire plaisir à une personne chère, par exemple en lui faisant un cadeau, il faut d’abord connaître ses goûts, pour éviter que le cadeau soit plus agréable à celui qui le fait qu’à celui qui le reçoit. Quand nous voulons offrir quelque chose au Seigneur, nous trouvons ses goûts dans l’Evangile. Tout de suite après le passage que nous avons écouté aujourd’hui, il dit: «Chaque fois que vous l’avez fait à un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait» (Mt 25, 40). Ces frères plus petits, préférés par Lui, sont l’affamé et le malade, l’étranger et le prisonnier, le pauvre et l’abandonné, celui qui souffre sans aide et celui qui est dans le besoin et exclu. Sur leur visage nous pouvons imaginer imprimé son visage; sur leurs lèvres, même si elles sont fermées par la douleur, ses paroles: «Ceci est mon corps» (Mt 26, 26). Dans le pauvre, Jésus frappe à la porte de notre cœur et, assoiffé, nous demande de l’amour. Lorsque nous vainquons l’indifférence et qu’au nom de Jésus nous nous dépensons pour ses frères plus petits, nous sommes ses amis bons et fidèles, avec lesquels il aime s’entretenir. Dieu l’apprécie beaucoup, il apprécie l’attitude que nous avons entendue dans la première Lecture, celle de la «femme parfaite» dont «les doigts s’ouvrent en faveur du pauvre», qui «tend la main au malheureux» (Pr 31, 10.20). Voilà la véritable force: non des poings fermés et des bras croisés, mais des mains actives et tendues vers les pauvres, vers la chair blessée du Seigneur.

Là dans les pauvres, se manifeste la présence de Jésus, qui de riche s’est fait pauvre (cf. 2 Co 8, 9). Pour cela, en eux, dans leur faiblesse, il y a une “force salvatrice”. Et si aux yeux du monde, ils ont peu de valeur, ce sont eux qui nous ouvrent le chemin du ciel, ils sont nos “passeports pour le paradis”. Pour nous c’est un devoir évangélique de prendre soin d’eux, qui sont notre véritable richesse, et de le faire non seulement en donnant du pain, mais aussi en rompant avec eux le pain de la Parole, dont ils sont les destinataires les plus naturels. Aimer le pauvre signifie lutter contre toutes les pauvretés, spirituelles et matérielles.

Et cela nous fera du bien: s’approcher de celui qui est plus pauvre que nous touchera notre vie. Cela nous rappellera ce qui compte vraiment: aimer Dieu et le prochain. Cela seulement dure toujours, tout le reste passe; donc ce que nous investissons dans l’amour demeure, le reste s’évanouit. Aujourd’hui, nous pouvons nous demander: “Qu’est-ce qui compte pour moi dans la vie, où est-ce que je m’engage?” Dans la richesse qui passe, dont le monde n’est jamais rassasié, ou dans la richesse de Dieu, qui donne la vie éternelle? Ce choix est devant nous: vivre pour avoir sur terre ou donner pour gagner le ciel. Parce que pour le ciel, ne vaut pas ce que l’on a, mais ce que l’on donne, et celui qui amasse des trésors pour lui-même ne s’enrichit pas auprès de Dieu (cf. Lc 12, 21). Alors ne cherchons pas le superflu pour nous, mais le bien pour les autres, et rien de précieux ne nous manquera. Que le Seigneur, qui a compassion pour nos pauvretés et nous revêt de ses talents, nous donne la sagesse de chercher ce qui compte et le courage d’aimer, non en paroles mais avec des faits.

[01739-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

We have the joy of breaking the bread of God’s word, and shortly, we will have the joy of breaking and receiving the Bread of the Eucharist, food for life’s journey. All of us, none excluded, need this, for all of us are beggars when it comes to what is essential: God’s love, which gives meaning to our lives and a life without end. So today too, we lift up our hands to him, asking to receive his gifts.

The Gospel parable speaks of gifts. It tells us that we have received talents from God, “according to ability of each” (Mt 25:15). Before all else, let us realize this: we do have talents; in God’s eyes, we are “talented”. Consequently, no one can think that he or she is useless, so poor as to be incapable of giving something to others. We are chosen and blessed by God, who wants to fill us with his gifts, more than any father or mother does with their own children. And God, in whose eyes no child can be neglected, entrusts to each of us a mission.

Indeed, as the loving and demanding Father that he is, he gives us responsibility. In the parable, we see that each servant is given talents to use wisely. But whereas the first two servants do what they are charged, the third does not make his talents bear fruit; he gives back only what he had received. “I was afraid – he says – and I went and hid your talent in the ground. Here you have what is yours” (v. 25). As a result, he is harshly rebuked as “wicked and lazy” (v. 26). What made the Master displeased with him? To use a word that may sound a little old-fashioned but is still timely, I would say it was his omission. His evil was that of failing to do good. All too often, we have the idea that we haven’t done anything wrong, and so we rest content, presuming that we are good and just. But in this way we risk acting like the unworthy servant: he did no wrong, he didn’t waste the talent, in fact he kept it carefully hidden in the ground. But to do no wrong is not enough. God is not an inspector looking for unstamped tickets; he is a Father looking for children to whom he can entrust his property and his plans (cf. v. 14). It is sad when the Father of love does not receive a generous response of love from his children, who do no more than keep the rules and follow the commandments, like hired hands in the house of the Father (cf. Lk 15:17).

The unworthy servant, despite receiving a talent from the Master who loves to share and multiply his gifts, guarded it jealously; he was content to keep it safe. But someone concerned only to preserve and maintain the treasures of the past is not being faithful to God. Instead, the parable tells us, the one who adds new talents is truly “faithful” (vv. 21 and 23), because he sees things as God does; he does not stand still, but instead, out of love, takes risks. He puts his life on the line for others; he is not content to keep things as they are. One thing alone does he overlook: his own interest. That is the only right “omission”.

Omission is also the great sin where the poor are concerned. Here it has a specific name: indifference. It is when we say, “That doesn’t regard me; it’s not my business; it’s society’s problem”. It is when we turn away from a brother or sister in need, when we change channels as soon as a disturbing question comes up, when we grow indignant at evil but do nothing about it. God will not ask us if we felt righteous indignation, but whether we did some good.

How, in practice can we please God? When we want to please someone dear to us, for example by giving a gift, we need first to know that person’s tastes, lest the gift prove more pleasing to the giver than to the recipient. When we want to offer something to the Lord, we can find his tastes in the Gospel. Immediately following the passage that we heard today, Jesus says, “Truly I tell you that, just as you did it to one of the least of these my brothers, you did it to me” (Mt 25:40). These least of our brethren, whom he loves dearly, are the hungry and the sick, the stranger and the prisoner, the poor and the abandoned, the suffering who receive no help, the needy who are cast aside. On their faces we can imagine seeing Jesus’ own face; on their lips, even if pursed in pain, we can hear his words: “This is my body” (Mt 26:26).

In the poor, Jesus knocks on the doors of our heart, thirsting for our love. When we overcome our indifference and, in the name of Jesus, we give of ourselves for the least of his brethren, we are his good and faithful friends, with whom he loves to dwell. God greatly appreciates the attitude described in today’s first reading that of the “good wife”, who “opens her hand to the poor, and reaches out her hands to the needy” (Prov 31:10.20). Here we see true goodness and strength: not in closed fists and crossed arms, but in ready hands outstretched to the poor, to the wounded flesh of the Lord.

There, in the poor, we find the presence of Jesus, who, though rich, became poor (cf. 2 Cor 8:9). For this reason, in them, in their weakness, a “saving power” is present. And if in the eyes of the world they have little value, they are the ones who open to us the way to heaven; they are our “passport to paradise”. For us it is an evangelical duty to care for them, as our real riches, and to do so not only by giving them bread, but also by breaking with them the bread of God’s word, which is addressed first to them. To love the poor means to combat all forms of poverty, spiritual and material.

And it will also do us good. Drawing near to the poor in our midst will touch our lives. It will remind us of what really counts: to love God and our neighbour. Only this lasts forever, everything else passes away. What we invest in love remains, the rest vanishes. Today we might ask ourselves: “What counts for me in life? Where am I making my investments?” In fleeting riches, with which the world is never satisfied, or in the wealth bestowed by God, who gives eternal life? This is the choice before us: to live in order to gain things on earth, or to give things away in order to gain heaven. Where heaven is concerned, what matters is not what we have, but what we give, for “those who store up treasures for themselves, do not grow rich in the sight of God” (Lk 12:21).

So let us not seek for ourselves more than we need, but rather what is good for others, and nothing of value will be lacking to us. May the Lord, who has compassion for our poverty and needs, and bestows his talents upon us, grant us the wisdom to seek what really matters, and the courage to love, not in words but in deeds.

[01739-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Wir haben die Freude das Brot des Wortes zu teilen und dann auch das eucharistische Brot zu brechen und zu empfangen – als Nahrungsmittel für unseren Lebensweg. Wir alle, ohne Ausnahme, brauchen diese Lebensmittel, weil wir alle Bettler des Unabdingbaren sind, Bettler der Liebe Gottes, der uns den Sinn des Lebens und ein Leben ohne Ende schenkt. Deswegen strecken wir ihm auch heute unsere Hand entgegen, um seine Gaben zu empfangen.

Eben von Gaben spricht das Gleichnis des Evangeliums. Es sagt uns, dass wir Empfänger von Talenten sind, die Gott »jedem nach seinen Fähigkeiten« zukommen lässt (Mt 25,15). Zunächst einmal sehen wir: wir haben Talente, in den Augen Gottes sind wir „talentiert“. Deswegen kann niemand sich für unnütz halten, niemand kann von sich sagen, er sei so arm, dass er nicht irgendetwas den anderen geben könnte. Wir sind von Gott erwählt und gesegnet. Er möchte uns mit seinen Gaben überhäufen, mehr noch als ein Papa oder eine Mamma dies für ihre Kinder tun möchten. Und Gott, der kein Kind aus den Augen verliert, vertraut einem jeden einen Auftrag an.

In der Tat, als liebevoller und anspruchsvoller Vater, der er ist, überträgt er uns eine Verantwortung. Im Gleichnis sehen wir, dass jedem Diener Talente anvertraut werden, damit er sie vervielfache. Aber während die ersten beiden diesem Auftrag nachkommen, macht der dritte Diener seine Talente nicht fruchtbar; er gibt nur das zurück, was er erhalten hatte: »Weil ich Angst hatte«, sagte er, »habe ich dein Geld in der Erde versteckt. Sieh her, hier hast du das Deine« (V. 25). Dieser Diener erntet dafür das harte Urteil, schlecht und faul zu sein (vgl. V. 26). Was aber hat dem Herrn an ihm nicht gefallen? Mit einem Wort, das heute etwas aus der Mode gekommen, aber doch sehr aktuell ist, würde ich sagen: die Unterlassung. Das Schlechte an ihm war, dass er das Gute nicht getan hat. Auch wir meinen oft, wir hätten nichts Schlechtes getan, und geben uns damit zufrieden. Wir meinen, wir seien gut und gerecht. So aber laufen wir Gefahr, uns wie der schlechte Diener zu verhalten: Auch er hat nichts Böses getan, er hat das Talent nicht verloren, er hat es sogar gut bewahrt unter der Erde. Aber es reicht eben nicht aus, nichts Böses zu tun. Denn Gott ist kein Kontrolleur, der nach nicht abgestempelten Fahrkarten fahndet, sondern er ist ein Vater auf der Suche nach Kindern, denen er seine Güter und seine Pläne anvertrauen kann (vgl. V. 14). Und es ist traurig, wenn der liebevolle Vater keine großzügige Antwort der Liebe von seinen Kindern erhält, und diese sich allein darauf beschränken, die Regeln zu respektieren und die Gebote zu erfüllen wie die bezahlten Knechte im Haus des Vaters (vgl. Lk 15,17).

Der schlechte Diener hat das Talent eifersüchtig bei sich behalten und sich damit zufriedengegeben, es aufzubewahren, obwohl sein Herr, von dem er es empfangen hat, es liebt, die Gaben zu teilen und zu vervielfältigen. Aber wer sich nur darum sorgt, etwas zu verwahren und die Schätze der Vergangenheit zu erhalten, der ist Gott nicht treu. Das Gleichnis sagt uns vielmehr, dass derjenige wirklich »treu« (VV. 21.23) ist, der neue Talente hinzugewinnt, weil er die gleiche Mentalität hat wie Gott und nicht unbeweglich bleibt: Er riskiert etwas um der Liebe willen, er setzt sein Leben aufs Spiel für andere, er gibt sich nicht damit zufrieden, alles so zu belassen, wie es ist. Nur eines unterlässt er: den Eigennutz. Das ist die einzig rechtmäßige Unterlassung.

Das Unterlassen ist auch die große Sünde gegenüber den Armen. In diesem Fall nennt man sie Gleichgültigkeit. Sie besteht darin zu sagen: „Das betrifft mich nicht, das geht mich nichts an, da ist die Gesellschaft schuld“. Sie besteht darin, sich abzuwenden, wenn der Bruder in Not ist, sie besteht darin, das Fernsehprogramm zu wechseln, sobald ein ernstes Thema uns belästigt, oder auch darin, sich über das Schlechte zu entrüsten ohne etwas dagegen zu tun. Gott aber wird uns einmal nicht fragen, ob wir zurecht entrüstet waren, sondern danach, ob wir Gutes getan haben.

Wie also können wir Gott konkret gefallen? Wenn man bei einem lieben Menschen Gefallen finden möchte, indem man ihm zum Beispiel ein Geschenk macht, muss man zuerst den Geschmack dieses Menschen kennen, damit das Geschenk nicht zum Schluss dem Geber besser gefällt als dem Empfänger. Wenn wir also dem Herrn etwas bieten wollen, finden wir das, was ihm gefällt, im Evangelium. Gleich nach dem heute gehörten Abschnitt sagt er: »Was ihr für einen meiner geringsten Brüder getan habt, das habt ihr mir getan« (Mt 25,40). Diese von ihm bevorzugten geringsten Brüder, sind der Hungernde und der Kranke, der Fremde und der Gefangene, der Arme und der Verlassene, der hilflos Leidende und der Ablehnung erfahrende Bedürftige. Auf ihren Gesichtern können wir uns sein Angesicht eingezeichnet vorstellen, aus ihren, wenn auch vom Schmerz verschlossenen, Lippen können wir seine Worte vernehmen: Das »ist mein Leib« (Mt 26,26). In den Armen klopft Jesus dürstend nach unserer Liebe an die Tür unseres Herzens. Wenn wir die Gleichgültigkeit besiegen und uns im Namen Jesu für seine Brüder und Schwestern verwenden, sind wir seine guten und treuen Freunde, bei denen er gerne verweilt. Gott schätzt das sehr, er schätzt dieses Verhalten, von dem wir in der Ersten Lesung gehört haben, das Verhalten der »tüchtigen Frau«, die »ihre Hand für den Bedürftigen öffnet und ihre Hände dem Armen reicht« (vgl. Spr 31, 10.20). Das ist die wahre Tüchtigkeit: nicht geschlossene Hände und verschränkte Arme, sondern tätige Hände, die sich zu den Armen hin ausstrecken, und damit auch nach den Verwundungen des Herrn.

Dort in den Amen zeigt sich die Gegenwart Jesu, der reich war und unseretwegen arm wurde (vgl. 2 Kor 8,9). Deswegen liegt in ihnen, in ihrer Schwäche, eine „Heilkraft“. Und auch wenn sie in den Augen der Welt wenig Ansehen genießen, so sind sie doch die, die uns den Weg zum Himmel öffnen, sie sind unser „Reisepass für das Paradies“. Es ist für uns eine evangeliumsgemäße Pflicht, uns ihrer anzunehmen, die unser wahrer Reichtum sind – und das nicht nur, indem wir ihnen Brot geben, sondern auch dadurch, dass wir mit ihnen das Brot des Wortes teilen, dessen natürlichste Empfänger sie sind. Den Armen zu lieben heißt, gegen alle Armut zu kämpfen, sowohl gegen die geistigen als auch gegen die materiellen Nöte.

Und das wird auch uns guttun. Die Nähe zu denen, die ärmer sind als wir, wird unser Leben nicht unberührt lassen. Wir werden erinnert an das, was wirklich zählt: Gott zu lieben und den Nächsten. Nur dies hat Bestand für immer, der Rest vergeht und deswegen bleibt nur das, was wir in die Liebe investieren. Heute können wir uns fragen: „Was zählt für mich in meinem Leben, wo investiere ich?“ In den Reichtum, der vergeht und von dem die Welt nie genug haben kann, oder in den Reichtum Gottes, der das ewige Leben schenkt? Wir stehen vor dieser Entscheidung: leben, um hier auf Erden zu haben oder geben, um den Himmel zu verdienen. Denn für den Himmel zählt nicht, was man hat, sondern was man gibt. Wer »für sich selbst Schätze sammelt, [ist] aber bei Gott nicht reich« (Lk 12,21). Suchen wir also nicht den Überfluss für uns, sondern das Wohl der anderen und nichts Wertvolles wird uns fehlen. Der Herr, der Mitleid hat mit unserer Armut und uns mit seinen Talenten ausstattet, schenke uns die Weisheit, das zu suchen, was wirklich zählt, und den Mut, nicht mit Worten zu lieben, sondern mit Taten.

[01739-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Tenemos la alegría de partir el pan de la Palabra, y dentro de poco de partir y recibir el Pan Eucarístico, que son alimento para el camino de la vida. Todos lo necesitamos, ninguno está excluido, porque todos somos mendigos de lo esencial, del amor de Dios, que nos da el sentido de la vida y una vida sin fin. Por eso hoy también tendemos la mano hacia Él para recibir sus dones.

La parábola del Evangelio nos habla precisamente de dones. Nos dice que somos destinatarios de los talentos de Dios, «cada cual según su capacidad» (Mt 25,15). En primer lugar, debemos reconocer que tenemos talentos, somos «talentosos» a los ojos de Dios. Por eso nadie puede considerarse inútil, ninguno puede creerse tan pobre que no pueda dar algo a los demás. Hemos sido elegidos y bendecidos por Dios, que desea colmarnos de sus dones, mucho más de lo que un papá o una mamá quieren para sus hijos. Y Dios, para el que ningún hijo puede ser descartado, confía a cada uno una misión.

En efecto, como Padre amoroso y exigente que es, nos hace ser responsables. En la parábola vemos que cada siervo recibe unos talentos para que los multiplique. Pero, mientras los dos primeros realizan la misión, el tercero no hace fructificar los talentos; restituye sólo lo que había recibido: «Tuve miedo —dice—, y fui y escondí tu talento en la tierra; mira, aquí tienes lo que es tuyo» (v. 25). Este siervo recibe como respuesta palabras duras: «Siervo malo y perezoso» (v. 26). ¿Qué es lo que no le ha gustado al Señor de él? Para decirlo con una palabra que tal vez ya no se usa mucho y, sin embargo, es muy actual, diría: la omisión. Lo que hizo mal fue no haber hecho el bien. Muchas veces nosotros estamos también convencidos de no haber hecho nada malo y así nos contentamos, presumiendo de ser buenos y justos. Pero, de esa manera corremos el riesgo de comportarnos como el siervo malvado: tampoco él hizo nada malo, no destruyó el talento, sino que lo guardó bien bajo tierra. Pero no hacer nada malo no es suficiente, porque Dios no es un revisor que busca billetes sin timbrar, es un Padre que sale a buscar hijos para confiarles sus bienes y sus proyectos (cf. v. 14). Y es triste cuando el Padre del amor no recibe una respuesta de amor generosa de parte de sus hijos, que se limitan a respetar las reglas, a cumplir los mandamientos, como si fueran asalariados en la casa del Padre (cf. Lc 15,17).

El siervo malvado, a pesar del talento recibido del Señor, el cual ama compartir y multiplicar los dones, lo ha custodiado celosamente, se ha conformado con preservarlo. Pero quien se preocupa sólo de conservar, de mantener los tesoros del pasado, no es fiel a Dios. En cambio, la parábola dice que quien añade nuevos talentos, ese es verdaderamente «fiel» (vv. 21.23), porque tiene la misma mentalidad de Dios y no permanece inmóvil: arriesga por amor, se juega la vida por los demás, no acepta el dejarlo todo como está. Sólo una cosa deja de lado: su propio beneficio. Esta es la única omisión justa.

La omisión es también el mayor pecado contra los pobres. Aquí adopta un nombre preciso: indiferencia. Es decir: «No es algo que me concierne, no es mi problema, es culpa de la sociedad». Es mirar a otro lado cuando el hermano pasa necesidad, es cambiar de canal cuando una cuestión seria nos molesta, es también indignarse ante el mal, pero no hacer nada. Dios, sin embargo, no nos preguntará si nos hemos indignado con razón, sino si hicimos el bien.

Entonces, ¿cómo podemos complacer al Señor de forma concreta? Cuando se quiere agradar a una persona querida, haciéndole un regalo, por ejemplo, es necesario antes de nada conocer sus gustos, para evitar que el don agrade más al que lo hace que al que lo recibe. Cuando queremos ofrecer algo al Señor, encontramos sus gustos en el Evangelio. Justo después del pasaje que hemos escuchado hoy, Él nos dice: «Cada vez que lo hicisteis con uno de estos, mis hermanos más pequeños, conmigo lo hicisteis» (Mt 25,40). Estos hermanos más pequeños, sus predilectos, son el hambriento y el enfermo, el forastero y el encarcelado, el pobre y el abandonado, el que sufre sin ayuda y el necesitado descartado. Sobre sus rostros podemos imaginar impreso su rostro; sobre sus labios, incluso si están cerrados por el dolor, sus palabras: «Esto es mi cuerpo» (Mt 26,26). En el pobre, Jesús llama a la puerta de nuestro corazón y, sediento, nos pide amor. Cuando vencemos la indiferencia y en el nombre de Jesús nos prodigamos por sus hermanos más pequeños, somos sus amigos buenos y fieles, con los que él ama estar. Dios lo aprecia mucho, aprecia la actitud que hemos escuchado en la primera Lectura, la de la «mujer fuerte» que «abre sus manos al necesitado y tiende sus brazos al pobre» (Pr 31,10.20). Esta es la verdadera fortaleza: no los puños cerrados y los brazos cruzados, sino las manos laboriosas y tendidas hacia los pobres, hacia la carne herida del Señor.

Ahí, en los pobres, se manifiesta la presencia de Jesús, que siendo rico se hizo pobre (cf. 2 Co 8,9). Por eso en ellos, en su debilidad, hay una «fuerza salvadora». Y si a los ojos del mundo tienen poco valor, son ellos los que nos abren el camino hacia el cielo, son «nuestro pasaporte para el paraíso». Es para nosotros un deber evangélico cuidar de ellos, que son nuestra verdadera riqueza, y hacerlo no sólo dando pan, sino también partiendo con ellos el pan de la Palabra, pues son sus destinatarios más naturales. Amar al pobre significa luchar contra todas las pobrezas, espirituales y materiales.

Y nos hará bien acercarnos a quien es más pobre que nosotros, tocará nuestra vida. Nos hará bien, nos recordará lo que verdaderamente cuenta: amar a Dios y al prójimo. Sólo esto dura para siempre, todo el resto pasa; por eso, lo que invertimos en amor es lo que permanece, el resto desaparece. Hoy podemos preguntarnos: «¿Qué cuenta para mí en la vida? ¿En qué invierto? ¿En la riqueza que pasa, de la que el mundo nunca está satisfecho, o en la riqueza de Dios, que da la vida eterna?». Esta es la elección que tenemos delante: vivir para tener en esta tierra o dar para ganar el cielo. Porque para el cielo no vale lo que se tiene, sino lo que se da, y «el que acumula tesoro para sí» no se hace «rico para con Dios» (Lc 12,21). No busquemos lo superfluo para nosotros, sino el bien para los demás, y nada de lo que vale nos faltará. Que el Señor, que tiene compasión de nuestra pobreza y nos reviste de sus talentos, nos dé la sabiduría de buscar lo que cuenta y el valor de amar, no con palabras sino con hechos.

[01739-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Temos a alegria de repartir o pão da Palavra e, em breve, de repartir e receber o Pão eucarístico, alimentos para o caminho da vida. Deles precisamos todos nós, ninguém excluso, porque todos somos mendigos do essencial, do amor de Deus, que nos dá o sentido da vida e uma vida sem fim. Por isso, também hoje, estendemos a mão para Ele a fim de receber os seus dons.

E, precisamente de dons, nos fala a parábola do Evangelho. Diz-nos que somos destinatários dos talentos de Deus, «cada qual conforme a sua capacidade» (Mt 25, 15). Antes de mais nada, reconheçamos isto: temos talentos, somos «talentosos» aos olhos de Deus. Por isso ninguém pode considerar-se inútil, ninguém pode dizer-se tão pobre que não possua algo para dar aos outros. Somos eleitos e abençoados por Deus, que deseja cumular-nos dos seus dons, mais do que um pai e uma mãe o desejam fazer aos seus filhos. E Deus, aos olhos de Quem nenhum filho pode ser descartado, confia uma missão a cada um.

De facto, como Pai amoroso e exigente que é, responsabiliza-nos. Vemos, na parábola, que a cada servo são dados talentos para os multiplicar. Mas enquanto os dois primeiros realizam a missão, o terceiro servo não faz render os talentos; restitui apenas o que recebera: «Com medo – diz ele –, fui esconder o teu talento na terra. Aqui está o que te pertence» (25, 25). Como resposta, este servo recebe palavras duras: «mau e preguiçoso» (25, 26). Nele, que desagradou ao Senhor? Diria, numa palavra (talvez caída um pouco em desuso mas muito atual), a omissão. O seu mal foi o de não fazer o bem. Muitas vezes também nos parece não ter feito nada de mal e com isso nos contentamos, presumindo que somos bons e justos. Assim, porém, corremos o risco de nos comportar como o servo mau: também ele não fez nada de mal, não estragou o talento, antes guardou-o bem na terra. Mas, não fazer nada de mal, não basta. Porque Deus não é um controlador à procura de bilhetes não timbrados; é um Pai à procura de filhos, a quem confiar os seus bens e os seus projetos (cf. 25, 14). E é triste, quando o Pai do amor não recebe uma generosa resposta de amor dos filhos, que se limitam a respeitar as regras, a cumprir os mandamentos, como jornaleiros na casa do Pai (cf. Lc 15, 17).

O servo mau, uma vez recebido o talento do Senhor que gosta de partilhar e multiplicar os dons, guardou-o zelosamente, contentou-se com salvaguardá-lo; ora não é fiel a Deus quem se preocupa apenas de conservar, de manter os tesouros do passado, mas, como diz a parábola, aquele que junta novos talentos é que é verdadeiramente «fiel» (25, 21.23), porque tem a mesma mentalidade de Deus e não fica imóvel: arrisca por amor, joga a vida pelos outros, não aceita deixar tudo como está. Descuida só uma coisa: o próprio interesse. Esta é a única omissão justa.

E a omissão é também o grande pecado contra os pobres. Aqui assume um nome preciso: indiferença. Esta é dizer: «Não me diz respeito, não é problema meu, é culpa da sociedade». É passar ao largo quando o irmão está em necessidade, é mudar de canal, logo que um problema sério nos indispõe, é também indignar-se com o mal mas sem fazer nada. Deus, porém, não nos perguntará se sentimos justa indignação, mas se fizemos o bem.

Como podemos então, concretamente, agradar a Deus? Quando se quer agradar a uma pessoa querida, por exemplo dando-lhe uma prenda, é preciso primeiro conhecer os seus gostos, para evitar que a prenda seja mais do agrado de quem a dá do que da pessoa que a recebe. Quando queremos oferecer algo ao Senhor, os seus gostos encontramo-los no Evangelho. Logo a seguir ao texto que ouvimos hoje, Ele diz: «Sempre que fizestes isto a um destes meus irmãos mais pequeninos, a Mim mesmo o fizestes» (Mt 25, 40). Estes irmãos mais pequeninos, seus prediletos, são o faminto e o doente, o forasteiro e o recluso, o pobre e o abandonado, o doente sem ajuda e o necessitado descartado. Nos seus rostos, podemos imaginar impresso o rosto d’Ele; nos seus lábios, mesmo se fechados pela dor, as palavras d’Ele: «Isto é o meu corpo» (Mt 26, 26). No pobre, Jesus bate à porta do nosso coração e, sedento, pede-nos amor. Quando vencemos a indiferença e, em nome de Jesus, nos gastamos pelos seus irmãos mais pequeninos, somos seus amigos bons e fiéis, com quem Ele gosta de Se demorar. Deus tem em grande apreço, Ele aprecia o comportamento que ouvimos na primeira Leitura: o da «mulher forte» que «estende os braços ao infeliz, e abre a mão ao indigente» (Prv 31, 10.20). Esta é a verdadeira fortaleza: não punhos cerrados e braços cruzados, mas mãos operosas e estendidas aos pobres, à carne ferida do Senhor.

Lá, nos pobres, manifesta-se a presença de Jesus, que, sendo rico, Se fez pobre (cf. 2 Cor 8, 9). Por isso neles, na sua fragilidade, há uma «força salvífica». E, se aos olhos do mundo têm pouco valor, são eles que nos abrem o caminho para o Céu, são o nosso «passaporte para o paraíso». Para nós, é um dever evangélico cuidar deles, que são a nossa verdadeira riqueza; e fazê-lo não só dando pão, mas também repartindo com eles o pão da Palavra, do qual são os destinatários mais naturais. Amar o pobre significa lutar contra todas as pobrezas, espirituais e materiais.

E isto far-nos-á bem: abeirar-nos de quem é mais pobre do que nós, tocará a nossa vida. Lembrar-nos-á aquilo que conta verdadeiramente: amar a Deus e ao próximo. Só isto dura para sempre, tudo o resto passa; por isso, o que investimos em amor permanece, o resto desaparece. Hoje podemos perguntar-nos: «Para mim, o que conta na vida? Onde invisto?» Na riqueza que passa, da qual o mundo nunca se sacia, ou na riqueza de Deus, que dá a vida eterna? Diante de nós, está esta escolha: viver para ter na terra ou dar para ganhar o Céu. Com efeito, para o Céu, não vale o que se tem, mas o que se , e «quem amontoa para si não é rico em relação a Deus» (cf. Lc 12, 21). Então não busquemos o supérfluo para nós, mas o bem para os outros, e nada de precioso nos faltará. O Senhor, que tem compaixão das nossas pobrezas e nos reveste dos seus talentos, nos conceda a sabedoria de procurar o que conta e a coragem de amar, não com palavras, mas com obras.

[01739-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Przeżywamy radość dzielenia się chlebem Słowa, a wkrótce dzielenia się i przyjmowania Chleba eucharystycznego, będących pokarmem na drogę życia. Wszyscy bez wyjątku ich potrzebujemy, ponieważ wszyscy jesteśmy żebrakami tego, co istotne – miłości Boga, która daje nam sens życia i życie bez końca. Dlatego również dzisiaj wyciągamy do Niego rękę, aby otrzymać Jego dary.

Właśnie o darach mówi ewangeliczna przypowieść. Powiada, że Boże talenty są adresowane do każdego z nas, „do każdego według jego zdolności” (Mt 25,15). Uznajemy przede wszystkim, że mamy talenty, że jesteśmy „utalentowani” w oczach Boga. Dlatego nikt nie może uważać siebie za bezużytecznego, nikt nie może uznać siebie za tak ubogiego, aby nie mógł dać czegoś innym. Jesteśmy wybrani i pobłogosławieni przez Boga, który pragnie napełnić nas swoimi darami, znacznie bardziej niż ojciec i matka pragną obdarować swoje dzieci. A Bóg, sprzed którego oczu żadne dziecko nie może zostać odrzucone, powierza każdemu pewną misję.

Rzeczywiście, będąc kochającym i wymagającym Ojcem uczy nas odpowiedzialności. Widzimy, że w przypowieści każdy sługa otrzymuje talenty, które ma pomnożyć. Ale podczas gdy dwaj pierwsi wypełniają misję, to trzeci sługa nie sprawia, aby ​​talenty dawały owoc. Zwraca tylko to, co otrzymał: „Bojąc się, poszedłem i ukryłem twój talent w ziemi. Oto masz swoją własność” (w. 25). Sługa ten otrzymuje w zamian surowe słowa: „zły i gnuśny” (w. 26). Co się w nim Panu nie podobało? Jednym słowem, które może trochę wyszło z obiegu, a jednak bardzo aktualnym powiedziałbym: zaniechanie. Jego winą było to, że nie czynił dobra. Również my często uważamy, że nie uczyniliśmy nic złego i tym się zadowalamy, przyjmując, że jesteśmy dobrzy i sprawiedliwi. Tak więc grozi nam, że będziemy się zachowywali jak zły sługa: również on nie uczynił nic złego, nie zrujnował talentu, a nawet dobrze zakonserwował go w ziemi. Ale nie czynienie niczego złego nie wystarcza. Ponieważ Bóg nie jest kontrolerem szukającym ludzi jeżdżących na gapę, ale Ojcem poszukającym dzieci, któremu trzeba powierzyć swoje dobra i swoje plany (por. w. 14). I smutno, kiedy miłujący Ojciec nie otrzymuje wielkodusznej odpowiedzi miłości od dzieci, które ograniczają się do przestrzegania reguł, aby wypełniać przykazania, jak najemnicy w domu Ojca (por. Łk 15,17).

Zły sługa, pomimo talentu, który otrzymał od Pana, kochającego dzielenie się i pomnażanie darów, strzegł go zazdrośnie i zadowolił się tym, że go zachował. Ale nie jest wierny Bogu ten, kto troszczy się jedynie o zachowanie, o utrzymanie skarbów przeszłości. Natomiast, jak mówi przypowieść, ten kto dodaje nowe talenty jest naprawdę „wierny”, (ww. 21,23), ponieważ ma taką samą mentalność jak Bóg i nie stoi biernie: podejmuje ryzyko ze względu na miłość, naraża swe życie dla innych, nie godzi się, by zostawić wszystko takim, jakim jest. Pomija tylko jedną rzecz: własną korzyść. To jest jedyne słuszne zaniechanie.

Zaniechanie to także wielki grzech wobec ubogich. Tutaj przyjmuje wyraźną nazwę: obojętność. To powiedzenie: „To mnie nie obchodzi, to nie moja sprawa, to wina społeczeństwa”. To odwrócenie się w inną stronę, kiedy brat jest w potrzebie, to zmienianie kanału, kiedy jakaś poważna sprawa nas irytuje, a także oburzanie się na zło, nic nie czyniąc. Jednakże Bóg nie zapyta nas, czy mieliśmy słuszne oburzenie, ale czy uczyniliśmy dobro.

W jaki sposób możemy zatem konkretnie podobać się Bogu? Gdy chcemy zadowolić kogoś nam drogiego, na przykład dając jemu prezent, trzeba najpierw poznać jego gusty, aby uniknąć takiej sytuacji, gdy prezent bardziej podoba się temu, kto go składa niż temu, kto go otrzymuje. Kiedy chcemy ofiarować coś Panu, to Jego upodobania odnajdujemy w Ewangelii. Zaraz po usłyszanym dzisiaj fragmencie mówi On: „Wszystko, co uczyniliście jednemu z tych braci moich najmniejszych, Mnieście uczynili” (Mt 25, 40). Tymi braćmi najmniejszymi, przez Niego umiłowanymi są głodny i chory, obcy i więzień, ubogi i opuszczony, cierpiący pozbawiony pomocy i odrzucony potrzebujący. Możemy sobie wyobrazić odciśnięte na ich twarzach Jego oblicze; na ich ustach, mimo że zamkniętych z bólu, Jego słowa: „To jest Ciało moje” (Mt 26, 26). W ubogim Jezus puka do naszego serca i spragniony prosi nas o miłość. Kiedy pokonujemy obojętność i w imieniu Jezusa poświęcamy się Jego braciom najmniejszym, to jesteśmy Jego przyjaciółmi dobrymi i wiernymi, z którymi lubi On przebywać. Bóg to bardzo docenia, docenia postawę, o której słyszeliśmy w pierwszym czytaniu mówiącym o „dzielnej niewieście”, która „Otwiera dłoń ubogiemu, do nędzarza wyciąga swe ręce” (Prz 31,10.20). To jest prawdziwe męstwo: nie zaciśnięte pięści i założone ramiona, ale ręce pracowite i wyciągnięte ku ubogim, ku zranionemu ciału Pana.

W ubogich, objawia się obecność Jezusa, który będąc bogatym, stał się ubogim (por. 2 Kor 8, 9). Z tego powodu, w nich, w ich słabości jest „zbawcza moc”. A jeśli w oczach świata mają małą wartość, to oni otwierają nam drogę do nieba, są naszym „paszportem do raju”. Dla nas troska o nich, będących naszym bogactwem to ewangeliczny obowiązek i mamy to czynić nie tylko dając chleb, ale również dzieląc z nimi chleb Słowa, którego są oni naturalnymi adresatami. Kochać ubogiego to walczyć z wszelkim ubóstwem, duchowym i materialnym.

Przydałoby się nam wszystkim zbliżenie do uboższych od nas, poruszy to nasze życie. Przypomni nam, co liczy się naprawdę: kochać Boga i bliźniego. Tylko to trwa wiecznie, wszystko inne przemija. Zatem to, co inwestujemy w miłość, pozostaje, reszta zanika. Dziś możemy zadać sobie pytanie: „Co liczy się dla mnie w życiu, gdzie inwestuję?”. W bogactwa, które mijają, których świat nigdy nie jest syty, czy też w bogactwo Boga, które daje życie wieczne? Ten wybór stoi przed nami: żyć, aby mieć na ziemi lub dawać, aby pozyskać niebo. Dla nieba nie liczy się bowiem to, co posiadamy, ale to co dajemy i „kto skarby gromadzi dla siebie, nie jest bogaty przed Bogiem” (Łk 12,21). Nie szukajmy zatem dla siebie tego co nadmierne, ale dobra dla innych, a niczego cennego nam nie zabraknie. Niech Pan, który współczuje naszemu ubóstwu i obdarza nas swoimi talentami, daje nam mądrość, byśmy szukali tego, co się liczy i odwagę, aby kochać, nie słowami, lecz czynem.

[01739-PL.01] [Testo originale: Italiano]

[B0805-XX.02]