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Santa Messa del Crisma nella Basilica Vaticana, 06.04.2023


Omelia del Santo Padre

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Alle ore 9.30 di questa mattina, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali.

La Messa del Crisma è concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi, il Vicario Generale di Sua Santità e il Vicegerente della Diocesi di Roma e i Presbiteri (diocesani e religiosi) presenti a Roma.

Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti hanno rinnovato le promesse fatte al momento della Sacra Ordinazione; quindi ha luogo la benedizione dell’olio degli infermi, dell’olio dei catecumeni e del crisma.

Pubblichiamo di seguito l’Omelia che il Papa pronuncia dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

Omelia del Santo Padre

«Lo spirito del Signore è sopra di me» (Lc 4,18): da questo versetto è cominciata la predicazione di Gesù e dallo stesso versetto ha preso avvio la Parola che abbiamo ascoltato oggi (cfr Is 61,1). Al principio, dunque, sta lo Spirito del Signore.

Ed è su di Lui che vorrei riflettere oggi con voi, cari confratelli, sullo Spirito del Signore. Perché senza lo Spirito del Signore non c’è vita cristiana e, senza la sua unzione, non c’è santità. Egli è il protagonista ed è bello oggi, nel giorno nativo del sacerdozio, riconoscere che c’è Lui all’origine del nostro ministero, della vita e della vitalità di ogni Pastore. La santa Madre Chiesa ci insegna infatti a professare che lo Spirito Santo «dà la vita»[1], come ha affermato Gesù dicendo: «È lo Spirito che dà la vita» (Gv 6,63); insegnamento ripreso dall’apostolo Paolo, il quale scrisse che «la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2 Cor 3,6) e parlò della «legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2). Senza di Lui neppure la Chiesa sarebbe la Sposa vivente di Cristo, ma al più un’organizzazione religiosa - più o meno buona; non sarebbe il Corpo di Cristo, ma un tempio costruito da mani d’uomo. Come edificare allora la Chiesa, se non a partire dal fatto che siamo “templi dello Spirito Santo” che “abita in noi” (cfr 1 Cor 6,19; 3,16)? Non possiamo lasciarlo fuori casa o parcheggiarlo in qualche zona devozionale, no, al centro! Abbiamo bisogno ogni giorno di dire: “Vieni, perché senza la tua forza nulla è nell’uomo”[2].

Lo Spirito del Signore è sopra di me. Ciascuno di noi può dirlo; e non è presunzione, è realtà, in quanto ogni cristiano, in particolare ogni sacerdote, può fare proprie le parole che seguono: «perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione» (Is 61,1). Fratelli, senza merito, per pura grazia abbiamo ricevuto un’unzione che ci ha fatto padri e pastori nel Popolo santo di Dio. Soffermiamoci allora su questo aspetto dello Spirito: l’unzione.

Dopo la prima “unzione” che avvenne nel grembo di Maria, lo Spirito scese su Gesù al Giordano. In seguito a ciò, come spiega San Basilio, «ogni azione [di Cristo] si andava compiendo con la compresenza dello Spirito Santo»[3]. Con la potenza di quella unzione, infatti, predicava e operava segni, in virtù di essa «da lui usciva una forza che guariva tutti» (Lc 6,19). Gesù e lo Spirito operano sempre insieme, così da essere come le due mani del Padre[4] - Ireneo dice questo - che, protese verso di noi, ci abbracciano e ci risollevano. E da loro sono state segnate le nostre mani, unte dallo Spirito di Cristo. Sì, fratelli, il Signore non ci ha solo scelti e chiamati di qua, di là: ha riversato in noi l’unzione del suo Spirito, lo stesso che è disceso sugli Apostoli. Fratelli noi siamo degli “unti”.

Guardiamo dunque a loro, agli Apostoli. Gesù li scelse e sulla sua chiamata lasciarono le barche, le reti, la casa e così via... L’unzione della Parola cambiò la loro vita. Con entusiasmo seguirono il Maestro e cominciarono a predicare, convinti di compiere in seguito cose ancora più grandi; finché arrivò la Pasqua. Lì tutto sembrò fermarsi: giunsero a rinnegare e abbandonare il Maestro. Non dobbiamo avere paura. Siamo coraggiosi nel leggere la nostra propria vita e le nostre cadute. Giunsero a rinnegare e abbandonare il Maestro, Pietro, il primo. Fecero i conti con la loro inadeguatezza e compresero di non averlo capito: il «non conosco quest’uomo» (Mc 14,71), che Pietro scandì nel cortile del sommo sacerdote dopo l’ultima Cena, non è solo una difesa impulsiva, ma un’ammissione di ignoranza spirituale: lui e gli altri forse si aspettavano una vita di successi dietro a un Messia trascinatore di folle e operatore di prodigi, ma non riconoscevano lo scandalo della croce, che sbriciolò le loro certezze. Gesù sapeva che da soli non ce l’avrebbero fatta e per questo promise loro il Paraclito. E fu proprio quella “seconda unzione”, a Pentecoste, a trasformare i discepoli portandoli a pascere il gregge di Dio e non più sé stessi. E questa è la contraddizione da risolvere: sono pastore del popolo di Dio o di me stesso? E c’è lo Spirito ad insegnarmi la strada. Fu quell’unzione di fuoco a estinguere la loro religiosità centrata su sé stessi e sulle proprie capacità: accolto lo Spirito, evaporano le paure e i tentennamenti di Pietro; Giacomo e Giovanni, bruciati dal desiderio di dare la vita, smettono di inseguire posti d’onore (cfr Mc 10,35-45), il carrierismo nostro, fratelli; gli altri non stanno più chiusi e timorosi nel Cenacolo, ma escono e diventano apostoli nel mondo. È lo spirito a cambiare il nostro cuore, a metterlo in quel piano diverso, differente.

Fratelli, un simile itinerario abbraccia la nostra vita sacerdotale e apostolica. Anche per noi c’è stata una prima unzione, cominciata con una chiamata d’amore che ci ha rapito il cuore. Per essa abbiamo lasciato gli ormeggi e su quell’entusiasmo genuino è scesa la forza dello Spirito, che ci ha consacrato. Poi, secondo i tempi di Dio, giunge per ciascuno la tappa pasquale, che segna il momento della verità. Ed è un momento di crisi, che ha varie forme. A tutti, prima o poi, succede di sperimentare delusioni, fatiche, debolezze, con l’ideale che sembra usurarsi fra le esigenze del reale, mentre subentra una certa abitudinarietà e alcune prove, prima difficili da immaginare, fanno apparire la fedeltà più scomoda rispetto a un tempo. Questa tappa - di questa tentazione, di questa prova che tutti noi abbiamo avuto, abbiamo e avremo – questa tappa rappresenta un crinale decisivo per chi ha ricevuto l’unzione. Si può uscirne male, planando verso una certa mediocrità, trascinandosi stanchi in una “normalità” dove si insinuano tre tentazioni pericolose: quella del compromesso, per cui ci si accontenta di ciò che si può fare; quella dei surrogati, per cui si tenta di “ricaricarsi” con altro rispetto alla nostra unzione; quella dello scoraggiamento – che è la più comune -, per cui, scontenti, si va avanti per inerzia. Ed ecco qui il grande rischio: mentre restano intatte le apparenze – “Io sono sacerdote, io sono prete” -, ci si ripiega su di sé e si tira a campare svogliati; la fragranza dell’unzione non profuma più la vita e il cuore; e il cuore non si dilata ma si restringe, avvolto nel disincanto. È un distillato, sai? Quando il sacerdozio lentamente va scivolando sul clericalismo e il sacerdote si dimentica di essere pastore del popolo, per diventare un chierico di Stato.

Ma questa crisi può diventare anche la svolta del sacerdozio, la «tappa decisiva della vita spirituale, in cui deve effettuarsi l’ultima scelta tra Gesù e il mondo, tra l’eroicità della carità e la mediocrità, tra la croce e un certo benessere, tra la santità e un’onesta fedeltà all’impegno religioso»[5]. Alla fine di questa celebrazione vi daranno come dono un classico, un libro che tratta su questo problema: “La seconda chiamata”, è un classico di padre Voillaume che tocca questo problema, leggetelo. Poi tutti noi abbiamo bisogno di riflettere su questo momento del nostro sacerdozio. È il momento benedetto in cui noi, come i discepoli a Pasqua, siamo chiamati a essere «abbastanza umili per confessarci vinti dal Cristo umiliato e crocifisso, e per accettare di iniziare un nuovo cammino, quello dello Spirito, della fede e di un amore forte e senza illusioni»[6]. È il chairos in cui scopre che «il tutto non si riduce ad abbandonare la barca e le reti per seguire Gesù durante un certo tempo, ma richiede di andare sino al Calvario, di accoglierne la lezione e il frutto, e di andare con l’aiuto dello Spirito Santo sino alla fine di una vita che deve terminare nella perfezione della divina Carità»[7]. Con l’aiuto dello Spirito Santo: è il tempo, per noi come per gli Apostoli, di una “seconda unzione”, tempo di una seconda chiamata che dobbiamo ascoltare, per la seconda unzione, dove accogliere lo Spirito non sull’entusiasmo dei nostri sogni, ma sulla fragilità della nostra realtà. È un’unzione che fa verità nel profondo, che permette allo Spirito di ungerci le debolezze, le fatiche, le povertà interiori. Allora l’unzione profuma nuovamente: di Lui, non di noi. In questo momento, interiormente, sto facendo memoria di alcuni di voi che sono in crisi – diciamo così – che sono disorientati e che non sanno come prendere la strada, come riprendere la strada in questa seconda unzione dello Spirito. A questi fratelli - io li ho presenti – semplicemente dico: coraggio, il Signore è più grande delle tue debolezze, dei tuoi peccati. Affidati al Signore e lasciati chiamare una seconda volta, questa volta con l’unzione dello Spirito Santo. La doppia vita non ti aiuterà; buttare tutto dalla finestra, nemmeno. Guarda avanti, lasciati carezzare per l’unzione dello Spirito Santo.

E la via per questo passo di maturazione è ammettere la verità della propria debolezza. A questo ci esorta «lo Spirito della verità» (Gv 16,13), che ci smuove a guardarci dentro fino in fondo, a chiederci: la mia realizzazione dipende dalla mia bravura, dal ruolo che ottengo, dai complimenti che ricevo, dalla carriera che faccio, dai superiori o collaboratori, o dai confort che mi posso garantire, oppure dall’unzione che profuma la mia vita? Fratelli, la maturità sacerdotale passa dallo Spirito Santo, si compie quando Lui diventa il protagonista della nostra vita. Allora tutto cambia prospettiva, anche le delusioni e le amarezze – anche i peccati - , perché non si tratta più di cercare di stare meglio aggiustando qualcosa, ma di consegnarci, senza trattenere nulla, a Chi ci ha impregnati nella sua unzione e vuole scendere in noi fino in fondo. Fratelli, riscopriamo allora che la vita spirituale diventa libera e gioiosa non quando si salvano le forme e si cuce una toppa, ma quando si lascia allo Spirito l’iniziativa e, abbandonati ai suoi disegni, ci disponiamo a servire dove e come ci viene chiesto: il nostro sacerdozio non cresce per rammendo, ma per traboccamento!

Se lasciamo agire in noi lo Spirito della verità custodiremo l’unzione – custodire l’unzione -, perché le falsità – le ipocrisie clericali – le falsità con cui siamo tentati di convivere verranno alla luce subito. E lo Spirito, il quale “lava ciò che è sordido”, ci suggerirà, senza stancarsi, di “non macchiare l’unzione”, nemmeno un poco. Viene alla mente quella frase del Qoelet, che dice: «Una mosca morta guasta l’unguento del profumiere» (10,1). È vero, ogni doppiezza – la doppiezza clericale, per favore – ogni doppiezza che si insinua è pericolosa: non va tollerata, ma portata alla luce dello Spirito. Perché se «niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce» (Ger 17,9), lo Spirito Santo, Lui solo, ci guarisce dalle infedeltà (cfr Os 14,5). È per noi una lotta irrinunciabile: è infatti indispensabile, come scrisse San Gregorio Magno, che «chi annuncia la parola di Dio, prima si dedichi al proprio modo di vivere, perché poi, attingendo dalla propria vita, impari cosa e come dirlo. [...] Nessuno presuma di dire fuori ciò che prima non ha ascoltato dentro»[8]. Ed è lo Spirito il maestro interiore da ascoltare, sapendo che non c’è nulla di noi che Egli non voglia ungere. Fratelli, custodiamo l’unzione: invocare lo Spirito sia non una pratica saltuaria, ma il respiro di ogni giorno. Vieni, vieni, custodisci l’unzione. Io, consacrato da Lui, sono chiamato a immergermi in Lui, a far entrare la sua luce nelle mie opacità –ne abbiamo tante - per ritrovare la verità di quello che sono. Lasciamoci spingere da Lui a combattere le falsità che si agitano in noi; e lasciamoci rigenerare da Lui nell’adorazione, perché quando adoriamo il Signore Egli riversa nei nostri cuori il suo Spirito.

«Lo spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato», prosegue la profezia, e mi ha mandato a portare un lieto annuncio, liberazione, guarigione e grazia (cfr Is 61,1-2; Lc 4,18-19): in una parola, a portare armonia dove non c’è. Perché come dice San Basilio: “Lo Spirito è l’armonia”, è Lui che fa l’armonia. Dopo avervi parlato dell’unzione, vorrei dirvi qualcosa su questa armonia che ne è la conseguenza. Lo Spirito Santo, infatti, è armonia. Anzitutto in Cielo: San Basilio spiega che «tutta quella sovraceleste e indicibile armonia nel servizio di Dio e nella sinfonia vicendevole delle potenze sovracosmiche, è impossibile che sia conservata se non per l’autorità dello Spirito»[9]. E poi in terra: nella Chiesa Egli è infatti quella «divina e musicale Armonia»[10] che tutto lega. Ma pensate a un presbiterio senza armonia, senza lo Spirito: non funziona. Suscita la diversità dei carismi e la ricompone in unità, crea una concordia che non si fonda sull’omologazione, ma sulla creatività della carità. Così fa l’armonia tra i molti. Così fa armonia in un presbitero. Durante gli anni del Concilio Vaticano II, che è stato un dono dello Spirito, un teologo pubblicò uno studio in cui parlò dello Spirito non in chiave individuale, ma plurale. Invitò a pensarlo come una Persona divina non tanto singolare, ma “plurale”, come il “noi di Dio”, il noi del Padre e del Figlio, perché è il loro nesso, è in sé stesso concordia, comunione, armonia[11]. Io ricordo che quando ho letto questo trattato teologico - era in teologia, studiando – mi sono scandalizzato: sembrava un’eresia, perché nella nostra formazione non si capiva bene come era la Spirito Santo.

Creare armonia è quanto desidera, soprattutto attraverso coloro nei quali ha riversato la sua unzione. Fratelli, costruire l’armonia tra noi non è tanto un buon metodo affinché la compagine ecclesiale proceda meglio, non è ballare il minuet, non è questione di strategia o di cortesia: è un’esigenza interna alla vita dello Spirito. Si pecca contro lo Spirito che è comunione quando si diventa, anche per leggerezza, strumenti di divisione, per esempio – e torniamo sullo stesso tema - col chiacchiericcio. Quando diventiamo strumenti di divisione pecchiamo contro lo Spirito. E si fa il gioco del nemico, che non viene allo scoperto e ama le dicerie e le insinuazioni, fomenta partiti e cordate, alimenta la nostalgia del passato, la sfiducia, il pessimismo, la paura. Stiamo attenti, per favore, a non sporcare l’unzione dello Spirito e la veste della Santa Madre Chiesa con la disunione, con le polarizzazioni, con ogni mancanza di carità e di comunione. Ricordiamo che lo Spirito, “il noi di Dio”, predilige la forma comunitaria: cioè la disponibilità rispetto alle proprie esigenze, l’obbedienza rispetto ai propri gusti, l’umiltà rispetto alle proprie pretese.

L’armonia non è una virtù tra le altre, è di più. San Gregorio Magno scrive: «Quanto valga la virtù della concordia lo dimostra il fatto che, senza di essa, tutte le altre virtù non valgono assolutamente nulla»[12]. Aiutiamoci, fratelli, a custodire l’armonia, custodire l’armonia – questo sarebbe il compito - cominciando non dagli altri, ma ciascuno da sé stesso; chiedendoci: nelle mie parole, nei miei commenti, in quello che dico e scrivo c’è il timbro dello Spirito o quello del mondo? Penso anche alla gentilezza del sacerdote - ma tante volte i preti, noi…siamo dei maleducati - : pensiamo alla gentilezza del sacerdote, se la gente trova persino in noi persone insoddisfatte persone scontente, zitellone, che criticano e puntano il dito, dove vedrà l’armonia?

Quanti non si avvicinano o si allontanano perché nella Chiesa non si sentono accolti e amati, ma guardati con sospetto e giudicati! In nome di Dio, accogliamo e perdoniamo, sempre! E ricordiamo che l’essere spigolosi e lamentosi, oltre a non produrre nulla di buono, corrompe l’annuncio, perché contro-testimonia Dio, che è comunione e armonia. E Ciò dispiace tanto e anzitutto allo Spirito Santo, che l’apostolo Paolo ci esorta a non rattristare (cfr Ef 4,30).

Fratelli, vi lascio questi pensieri che sono usciti dal cuore e concludo rivolgendovi una parola semplice e importante: grazie. Grazie per la vostra testimonianza, grazie per il vostro servizio; grazie per tanto bene nascosto che fate, grazie per il perdono e la consolazione che regalate in nome di Dio: perdonare sempre, per favore, mai negare il perdono; grazie per il vostro ministero, che spesso si svolge tra tante fatiche, incomprensioni e pochi riconoscimenti. Fratelli, lo Spirito di Dio, che non lascia deluso chi ripone in Lui la propria fiducia, vi colmi di pace e porti a compimento ciò che in voi ha iniziato, perché siate profeti della sua unzione e apostoli di armonia.

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[1] Simbolo niceno-costantinopolitano.
[2] Cfr Sequenza di Pentecoste.
[3] Spir. 16,39.
[4] Cfr Ireneo, Adv. haer. IV,20,1.
[5] R. Voillaume, «La seconda chiamata», in S. Stevan ed., La Seconda chiamata. Il coraggio della fragilità, Bologna 2018, 15.
[6] ibid., 24.
[7] ibid., 16.
[8] Omelie su Ezechiele, I,X,13-14.
[9] Spir. XVI, 38.
[10] In Ps. 29,1.
[11] Cfr H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963.
[12] Omelie su Ezechiele, I,VIII,8.

[00555-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

« L'Esprit du Seigneur est sur moi » (Lc 4,18) : c'est à partir de ce verset qu'a commencé la prédication de Jésus, et c'est à partir de ce même verset que la Parole que nous avons entendue aujourd'hui a débuté (cf. Is 61,1). Au commencement, donc, il y a l'Esprit du Seigneur.

Et c'est sur lui que je voudrais réfléchir avec vous aujourd'hui, chers confrères, sur l’Esprit du Seigneur. En effet, sans l'Esprit du Seigneur, il n'y a pas de vie chrétienne, et sans son onction, il n'y a pas de sainteté. Il est le protagoniste et c’est beau, en ce jour de naissance du sacerdoce, de reconnaître qu'il est à l'origine de notre ministère, de la vie et de la vitalité de chaque pasteur. En effet, notre Sainte Mère l'Église nous enseigne à professer que l'Esprit Saint "donne la vie"[1] comme l'a affirmé Jésus en disant : « C'est l'Esprit qui fait vivre » (Jn 6, 63) ; un enseignement repris par l'apôtre Paul qui écrit : « La lettre tue, mais l'Esprit donne la vie » (2 Co 3, 6) et parle de la « loi de l'Esprit qui donne la vie dans le Christ Jésus » (Rm 8, 2). Sans Lui, l'Église ne serait pas l'Épouse vivante du Christ, mais tout au plus une organisation religieuse – plus ou moins bonne ; elle ne serait pas le Corps du Christ, mais un temple construit par des mains humaines. Comment l'Église peut-elle être construite, sinon à partir du fait que nous sommes les « temples de l'Esprit Saint » qui « habite en nous » (cf. 1 Co 6, 19 ; 3,16) ? Nous ne pouvons pas le laisser dehors ou le « parquer » dans une zone de dévotion, non, au centre !. Nous avons besoin de dire chaque jour : "Viens, car sans ta puissance rien n'est en l'homme".[2]

L'Esprit du Seigneur est sur moi. Chacun de nous peut le dire ; et ce n’est pas de la présomption, c’est une la réalité, puisque tout chrétien, et en particulier tout prêtre, peut faire siennes les paroles suivantes : « Le Seigneur m'a consacré par l'onction » (Is 61, 1). Frères, sans mérite, par pure grâce, nous avons reçu une onction qui a fait de nous des pères et des pasteurs du Peuple saint de Dieu. Arrêtons-nous donc sur cet aspect de l'Esprit : l'onction.

Après la première « onction » dans le sein de Marie, l’Esprit est descendu sur Jésus au Jourdain. Par la suite, comme l'explique saint Basile, « chaque action [du Christ] s'est accomplie avec la co-présence de l'Esprit Saint ».[3] En effet, c'est par la puissance de cette onction qu'Il prêchait et accomplissait des signes, en vertu de laquelle « une force sortait de Lui et les guérissait tous » (Lc 6, 19). Jésus et l'Esprit œuvrent toujours ensemble, de sorte qu'ils sont comme les deux mains du Père[4] – Irénée dit cela – qui, tendues vers nous, nous étreignent et nous relèvent. Et c'est par elles que nos mains, ointes par l'Esprit du Christ ont été marquées. Oui, frères, le Seigneur ne nous a pas seulement choisis et appelés de partout : il a répandu en nous l'onction de son Esprit, celui-là même qui est descendu sur les Apôtres. Frères nous sommes des “oints”.

Regardons donc vers eux, vers les Apôtres. Jésus les choisit et, à son appel, ils quittent leurs barques, leurs filets, leurs maisons et ainsi de suite... L'onction de la Parole change leur vie. Avec enthousiasme, ils suivent le Maître et commencent à prêcher, convaincus d'accomplir par la suite des choses encore plus grandes ; jusqu'à ce que survienne la Pâque. Là, tout semble s'arrêter : ils en viennent à renier et à abandonner le Maître. Nous ne devons pas avoir peur. Soyons courageux en lisant notre propre vie et nos chutes. Ils parviennent à renier et à abandonner le Maitre, Pierre, le premier. Ils se rendent compte de leur incapacité et réalisent qu'ils ne l'avaient pas compris : le « Je ne connais pas cet homme » (Mc 14, 71), que Pierre prononce dans la cour du grand prêtre après la dernière Cène, n'est pas seulement une défense impulsive, mais un aveu d'ignorance spirituelle : lui et les autres s'attendaient peut-être à une vie de succès derrière un Messie attirant les foules et accomplissant des prodiges. Mais ils ne reconnaissent pas le scandale de la croix qui brise leurs certitudes. Jésus savait qu'ils n'y arriveraient pas seuls, et c'est pourquoi il leur avait promis le Paraclet. Et c'est justement cette « seconde onction », à la Pentecôte, qui transforme les disciples, en les amenant à paître le troupeau de Dieu et non plus eux-mêmes. Et telle est la contradiction à résoudre : suis-je pasteur du peuple de Dieu ou de moi-même ? Et il y a l’Esprit qui m’enseigne le chemin. C'est cette onction de feu qui fait disparaître leur religiosité centrée sur eux-mêmes et sur leurs propres capacités : une fois l'Esprit reçu, les craintes et les hésitations de Pierre se dissiperont ; Jacques et Jean, brûlés par le désir de donner leur vie, cesseront de courir après les places d'honneur (cf. Mc 10, 35-45) ; notre carriérisme, frères ; les autres ne resteront plus enfermés et craintifs au Cénacle, mais ils sortiront et deviendront apôtres dans le monde. C’est l’esprit qui change notre cœur, qui le met dans ce plan différent.

Frères, un tel chemin embrasse notre vie sacerdotale et apostolique. Pour nous aussi, il y a eu une première onction qui a commencé par un appel d'amour qui a ravi nos cœurs. Pour lui nous avons rompu nos amarres et sur cet enthousiasme authentique est descendue la force de l'Esprit, qui nous a consacrés. Ensuite, selon le temps voulu par Dieu, vient pour chacun l'étape pascale, qui marque le moment de vérité. Et c'est un moment de tension qui prend des formes diverses. Il arrive à chacun, tôt ou tard, de connaître des déceptions, des fatigues, des faiblesses, l'idéal semblant se diluer devant les exigences de la réalité, tandis qu'une certaine habitude prend le dessus et que certaines épreuves, auparavant difficilement imaginables, rendent la fidélité plus inconfortable qu'elle ne l'était auparavant. Cette étape – de cette tentation, de cette épreuve que nous avons tous eue, que nous avons et que nous aurons – cette étape représente une ligne de crête décisive pour ceux qui ont reçu l'onction. On peut s’en sortir mal, en glissant vers une certaine médiocrité, en se traînant avec lassitude dans une « normalité » où s'insinuent trois tentations dangereuses : celle du compromis, où l'on se contente de ce que l'on peut faire ; celle des compensations, où l'on cherche à se « recharger » avec autre chose que notre onction ; celle du découragement – qui est la plus commune –, où, mécontents, l'on continue par inertie. Et c'est là que réside le grand risque : alors que les apparences demeurent intactes – “Je suis prêtre” –, on se replie sur soi-même et on se traîne sans énergie ; le parfum de l'onction n’embaume plus la vie et le cœur ; et le cœur ne se dilate plus mais se rétrécit, enserré dans le désenchantement. C’est un distillat, tu sais ? Lorsque le sacerdoce glisse lentement sur le cléricalisme et que le prêtre oublie d’être pasteur du peuple, pour devenir un clerc d’État.

Mais cette crise peut aussi devenir le tournant du sacerdoce, « l'étape décisive de la vie spirituelle, où il faut faire l'ultime choix entre Jésus et le monde, entre l'héroïsme de la charité et la médiocrité, entre la croix et un certain bien-être, entre la sainteté et une honnête fidélité à l'engagement religieux » .[5] À la fin de cette célébration, on vous donnera comme cadeau un classique, un livre qui traite de ce problème : “Le second appel”, c’est un classique du Père Voillaume qui touche ce problème, lisez-le. Ensuite, nous avons tous besoin réfléchir à ce moment de notre sacerdoce. C'est le moment béni où, comme les disciples à Pâques, nous sommes appelés à être « assez humbles pour confesser que nous avons été vaincus par le Christ humilié et crucifié, et pour accepter de commencer un nouveau chemin, celui de l'Esprit, de la foi et d'un amour fort et sans illusions » .[6] C'est le kairos où l'on découvre que « tout cela ne se réduit pas à abandonner la barque et les filets pour suivre Jésus pendant un certain temps, mais nous oblige à aller jusqu'au Calvaire, à accueillir la leçon et le fruit, et à aller avec l'aide de l'Esprit Saint jusqu'au bout d'une vie qui doit s'achever dans la perfection de la Charité divine ». [7] Avec l'aide de l'Esprit Saint : c'est le temps, pour nous comme pour les Apôtres, d'une « seconde onction », temps d’un second appel que nous devons écouter, pour la seconde onction, celle où nous accueillons l'Esprit, non pas à partir de l'enthousiasme de nos rêves, mais à partir de la fragilité de notre réalité. C'est une onction qui fait la vérité en profondeur, qui permet à l'Esprit d'oindre nos faiblesses, nos travaux, nos pauvretés intérieures. Alors l’onction embaume à nouveau : de son parfum et non du nôtre. En ce moment, intérieurement, je fais mémoire de certains d’entre vous qui sont en crise – disons ainsi – qui sont désorientés et qui ne savent pas comment prendre le chemin, comment reprendre le chemin dans cette seconde onction de l’Esprit. À ces frères – je les ai présents – je dis simplement : courage, le Seigneur est plus grand que tes faiblesses, que tes péchés. Confie-toi au Seigneur et laisse-toi appeler une deuxième fois, cette fois avec l’onction de l’Esprit Saint. La double vie ne t’aidera pas ; jeter tout par la fenêtre, non plus. Regarde en avant, laisse-toi caresser par l’onction de l’Esprit Saint.

Et le chemin pour ce pas de maturité est d'admettre la vérité de sa propre faiblesse. « L’Esprit de vérité » (Jn 16, 13) nous y exhorte, il nous pousse à regarder en nous-mêmes jusqu’au fond et à nous demander : mon épanouissement dépend-il de mes capacités, du rôle que j'obtiens, des compliments que je reçois, de la carrière que je poursuis, des supérieurs ou des collaborateurs, ou du confort que je peux me garantir, ou de l'onction qui parfume ma vie ? Frères, la maturité sacerdotale passe par l'Esprit Saint, elle se réalise quand Il devient le protagoniste de notre vie. Alors tout change de perspective, même les déceptions et les amertumes – même les péchés – parce qu'il ne s'agit plus d'essayer de nous améliorer en corrigeant quelque chose, mais de nous en remettre, sans rien retenir, à Celui qui nous a gratifiés de son onction et veut descendre en nous au plus profond. Frères, nous redécouvrons alors que la vie spirituelle devient libre et joyeuse non pas quand on sauve les formes et que l’on rapièce, mais quand on laisse l'initiative à l'Esprit et que, abandonnés à ses desseins, on se dispose à servir là et comme on nous le demande : notre sacerdoce ne grandit pas en rapiéçant, mais en débordant !

Si nous laissons l'Esprit de vérité agir en nous, nous conserverons l'onction – conserver l’onction –, car les faussetés – les hypocrisies cléricales – les faussetés avec lesquelles nous sommes tentés de vivre viendront à la lumière immédiatement. Et l'Esprit, qui « lave ce qui est sale », nous suggérera, sans se lasser, de « ne pas souiller l'onction », ne serait-ce qu'un peu. Il me vient à l’esprit cette phrase du Qohèleth qui dit : « Une seule mouche morte infeste et gâte l'huile du parfumeur » (10, 1). C’est vrai, toute duplicité – la duplicité cléricale, s’il vous plaît – toute duplicité qui s'insinue est dangereuse : elle ne doit pas être tolérée mais mise à la lumière de l'Esprit. Parce que, si « rien n'est plus faux que le cœur de l’homme, il est incurable » (Jr 17, 9), l'Esprit Saint, Lui seul, nous guérit de l'infidélité (cf. Os 14, 5). C'est pour nous un combat essentiel : il est en effet indispensable, comme l'écrivait saint Grégoire le Grand que « celui qui annonce la parole de Dieu se consacre d'abord à son propre mode de vie, pour apprendre ensuite, à partir de sa propre vie, ce qu'il doit dire et comment il doit le dire. [...] Que nul ne prétende dire à l'extérieur ce qu'il n'a pas d'abord entendu à l'intérieur ».[8] Et c'est l'Esprit, le maître intérieur, qu’il faut écouter, sachant qu'il n'y a rien en nous qu'Il ne veuille oindre. Frères, préservons l'onction : que l'invocation de l'Esprit ne soit pas une pratique sporadique, mais le souffle de chaque jour. Viens, viens, conserve-nous l’onction. Moi, consacré par Lui, je suis appelé à m'immerger en Lui, à laisser sa lumière pénétrer mes obscurités – nous en avons beaucoup – pour retrouver la vérité de ce que je suis. Laissons-nous entraîner par Lui pour combattre les contradictions qui s'agitent en nous ; et laissons-nous régénérer par Lui dans l'adoration, car lorsque nous adorons le Seigneur, Il déverse son Esprit dans nos cœurs.

L'esprit du Seigneur est sur moi, parce que le Seigneur m'a consacré par l'onction ; il m'a envoyé - poursuit la prophétie – et m’a envoyé pour apporter la bonne nouvelle, la délivrance, la guérison et la grâce (cf. Is 61, 1-2 ; Lc 4, 18-19) : en un mot, pour apporter l'harmonie là où il n'y en a pas. Car comme le dit saint Basile : “L’Esprit est l’harmonie” c’est Lui qui fait l’harmonie. Après vous avoir parlé de l'onction, je voudrais vous dire quelque chose de cette harmonie qui en est la conséquence. L'Esprit Saint, en effet, est harmonie. D'abord au ciel : saint Basile explique que « cette supra-céleste et indicible harmonie dans service de Dieu et dans la symphonie réciproque des puissances supra-cosmiques, il est impossible qu'elle soit conservée sinon par l'autorité de l'Esprit »[9]. Et aussi sur la terre : dans l'Église, c’est bien Lui cette « Harmonie divine et musicale »[10] qui relie tout. Mais pensez à un presbyterium sans harmonie, sans l’Esprit : cela ne fonctionne pas. Il suscite la diversité des charismes et la refonde en unité, il crée une concorde qui n'est pas fondée sur l'homologation, mais sur la créativité de la charité. Il en va de même pour l'harmonie entre les uns et les autres. Il en va de même pour l'harmonie dans un presbytère. Pendant les années du Concile Vatican II, qui a été un don de l'Esprit, un théologien a publié une étude dans laquelle il parlait de l'Esprit non pas dans son individualité, mais dans son pluralisme. Il nous invitait à le considérer comme une Personne divine non pas tant singulière que « plurielle », comme le « nous de Dieu », le « nous » du Père et du Fils, parce qu'il est leur lien, il est en lui-même concorde, communion, harmonie.[11] Je me souviens que quand j’ai lu ce traité théologique – c’était en théologie, en étudiant – je me suis scandalisé : il semblait une hérésie, parce que dans notre formation on ne comprenait pas bien comment était l’Esprit Saint.

Créer l'harmonie, c'est ce qu'Il désire, surtout parmi ceux sur qui Il a répandu son onction. Frères, construire l'harmonie entre nous n'est donc pas une bonne méthode pour que la structure ecclésiale puisse mieux fonctionner, ce n’est pas danser le Minuet, ce n'est pas une question de stratégie ou de courtoisie, mais une exigence interne de la vie de l'Esprit. On pèche contre l'Esprit, qui est communion, quand on devient, même par légèreté, un instrument de division, par exemple – et revenons sur le même thème – avec le bavardage. Quand nous devenons des instruments de division, nous péchons contre l’Esprit. Et on fait le jeu de l'ennemi qui ne se montre pas au grand jour et qui aime les rumeurs et les insinuations, qui fomente des partis et des groupes de pressions, nourrit la nostalgie du passé, la méfiance, le pessimisme, la peur. Veillons, s'il vous plaît, à ne pas souiller l'onction de l'Esprit et la tunique de la Sainte Mère l'Église par la désunion, les polarisations, par tout manque de charité et de communion. Rappelons-nous que l'Esprit, « le nous de Dieu », préfère la forme communautaire : c’est-à-dire la disponibilité par rapport à ses propres exigences, l'obéissance par rapport à ses propres goûts, l'humilité par rapport à ses propres attentes.

L'harmonie n'est pas une vertu parmi d'autres, elle est davantage. Saint Grégoire le Grand écrit : « La valeur de la vertu d'harmonie est démontrée par le fait que, sans elle, toutes les autres vertus ne valent absolument rien ».[12] Aidons-nous les uns les autres, mes frères, à préserver l'harmonie, - préserver l’harmonie – ce serait le devoir – en commençant non pas par les autres, mais chacun par soi-même ; en nous demandant : dans mes paroles, dans mes commentaires, dans ce que je dis et écris, y a-t-il l'empreinte de l'Esprit ou celle du monde ? Je pense aussi à la gentillesse du prêtre - mais si souvent les prêtres, nous... sommes impolis - : pensons à la gentillesse du prêtre, si les gens trouvent, même chez nous, des personnes insatisfaites, vieux garçons, des personnes mécontentes qui critiquent et pointent du doigt, où verront-ils l'harmonie ? Combien ne s'approchent pas, ou bien s'éloignent, parce qu’ils ne se sentent ni accueillis ni aimés dans l'Église, mais regardés avec suspicion et jugés ! Au nom de Dieu, accueillons et pardonnons, toujours ! Et rappelons-nous que le fait d'être crispés et de se plaindre, outre que cela ne produit rien de bon, compromet l'annonce, parce que cela est un contre-témoignage de Dieu qui est communion et harmonie. Et cela déplaît beaucoup et surtout à l'Esprit Saint que l'apôtre Paul nous exhorte à ne pas contrister (cf. Ep 4, 30).

Frères, je vous laisse avec ces pensées qui sont sorties du cœur et je termine en vous adressant une parole simple et importante : merci. Merci pour votre témoignage, merci pour votre service ; merci pour tout le bien caché que vous faites, merci pour le pardon et la consolation que vous offrez au nom de Dieu : toujours pardonner, s’il vous plaît, ne jamais refuser le pardon ; merci pour votre ministère qui s'exerce souvent au prix de beaucoup de fatigues, d’incompréhensions et de peu de reconnaissance. Frères, que l'Esprit de Dieu, qui ne déçoit pas ceux qui se confient en Lui, vous comble de paix et achève en vous ce qu'il a commencé, afin que vous soyez prophètes de son onction et apôtres d'harmonie.

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[1] Symbole de Nicée-Constantinople.
[2] Cf. Séquence de la Pentecôte.
[3] Spir. XVI, 39.
[4] Cf. Irené de Lyon, Adv. haer. IV, 20,1.
[5] R. Voillaume, «La seconda chiamata», in S. Stevan, ed. La Seconda chiamata. Il coraggio della fragilità, Bologna 2018, 15. (« Le second appel », Lettres aux fraternités, t. 1, Paris, Cerf, 1960, pp. 11-35)
[6] ibid., 24.
[7] ibid., 16.
[8] Homélies sur Ezéchiel, I, X ,13-14.
[9] Spir. XVI, 38. Basile de Césarée, De Spiritu sancto, Sources Chrétiennes 17, [SPIR.S] 16, 38 (p.382).
[10] In Ps. 29,1.
[11] Cf. H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963.
[12] Homélies sur Ezéchiel, I, VIII, 8.

[00555-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

 “The Spirit of the Lord is upon me” (Lk 4:18).  Jesus began his preaching with this verse, which also begins today’s first reading (cf. Is 61:1).  At the beginning, then, the Spirit of the Lord is present.

Dear brothers in the priesthood, today I would like to reflect with you on the Holy Spirit.  For without the Spirit of the Lord, there can be no Christian life; without his anointing, there can be no holiness.  He is at the centre and it is fitting that today, on the birthday of the priesthood, we acknowledge his presence at the origin of our own ministry, and the life and vitality of every priest.  Holy Mother Church teaches us to profess that the Holy Spirit is the “giver of life”.[1]  Jesus told us: “it is the Spirit that gives life” (Jn 6:63).  His teaching was taken up by the apostle Paul, who wrote that “the letter kills, but the Spirit gives life” (2 Cor 3:6) and who spoke of the “law of the Spirit of life in Christ Jesus” (Rom 8:2).  Without the Holy Spirit, the Church would not be the living Bride of Christ, but, at most, a religious association – more or less good, not the Body of Christ, but a temple built by human hands.  How then are we to build up the Church, if not beginning with the fact that we are “temples of the Holy Spirit” who “dwells in us” (cf. 1 Cor 6:19; 3:16)?  We cannot lock the Spirit out of the house, or park him in some devotional zone, no, he has to be at the centre!  Each day we need to say: “Come, for without your strength, we are lost”.[2]

The Spirit of the Lord is upon me.  Every one of us can say this, not out of presumption, but as a reality.  For all Christians, and priests in particular, can apply to themselves the words that follow: “because the Lord has anointed me” (Is 61:1).  Dear brothers, apart from any merit of our own, and by sheer grace, we have received an anointing that has made us fathers and shepherds among the holy People of God. Let us reflect, then, on this aspect of the Spirit: his anointing.

After his initial anointing, which took place in the womb of Mary, the Holy Spirit descended upon Jesus in the Jordan.  Following that, as Saint Basil explains, “every act [of Christ] was performed with the co-presence of the Holy Spirit”.[3]  In the power of that latter anointing, Jesus preached and worked signs; thanks to that anointing, “power came out from him and healed all” (Lk 6:19).  Jesus and the Spirit always work together, like two hands of the Father[4] – as Irenaeus said – that reach out to embrace us and raise us up.  By those hands, our own hands were sealed, anointed by the Spirit of Christ.  Yes, brothers, the Lord has not only chosen us and called us to go to that place or another: he has poured out upon us the anointing of the Holy Spirit, the same Spirit who descended upon the apostles.  Brothers, we are “the anointed”.

 Let us now turn our attention to them, to the apostles.  Jesus chose them and at his call, they left their boats, their nets and their homes and so on…  The anointing of the Word changed their lives.  With great enthusiasm, they followed the Master and began to preach, convinced that they would go on to accomplish even greater things.  Then came the Passover.  Everything seemed to come to a halt: they even denied and abandoned their Master.  We should not be afraid.  We are courageous when reading about our life and our failures, even denying and abandoning the Master, as Peter did.  They came to grips with their own failure; they realized that they had not understood him.  The words uttered by Peter in the courtyard of the high priest following the Last Supper – “I do not know this man” (Mk 14:71) – were not only an impulsive attempt at self-defense, but an admission of spiritual ignorance.  He and the others perhaps expected a life of triumph behind the Messiah who drew crowds and worked wonders, but they failed to understand the scandal of the cross, which caused their certainties to collapse.  Jesus knew that, on their own, they would not have succeeded, and so he promised to send them the Paraclete.  It was precisely that “second anointing”, at Pentecost, that changed the disciples and led them to shepherd no longer themselves but the Lord’s flock.  Here is the conflict to resolve: Am I a pastor of the Lord’s flock or of myself?  The Spirit is there to show us the way.  It was that anointing with fire that extinguished a “piety” focused on themselves and their own abilities.  After receiving the Spirit, Peter’s fear and wavering dissipated; James and John, with a burning desire to give their lives, no longer sought places of honour (cf. Mk 10:35-45) which is careerism, brothers; the others who had huddled fearfully in the Upper Room, went forth into the world as apostles.  The Spirit changes our heart and points it in a different direction.

Dear brothers, something similar happens in our own priestly and apostolic lives.  We too experienced an initial anointing, which began with a loving call that captivated our hearts and set us out on the journey; the power of the Holy Spirit descended upon our genuine enthusiasm and consecrated us.  Later, in God’s good time, each of us experienced a Passover, representing the moment of truth.  A time of crisis which took various forms.  Sooner or later, we all experience disappointment, frustration and our own weakness; our ideals seem to recede in the face of reality, a certain force of habit takes over, and difficulties that once seemed unimaginable appear to challenge our fidelity.  For the anointed, this stage – this temptation, this trail which we have experienced, we are experiencing or will experience – is a watershed.  We can emerge from it badly, drifting towards mediocrity and settling for a dreary routine, in which three dangerous temptations can arise.  The temptation of compromise, where we are content just to do what has to be done; the temptation of surrogates, where to find satisfaction we look not to our anointing, but elsewhere; and the temptation of discouragement – which is very common – where dissatisfaction leads to inertia.  This is the great danger: while outward appearances remain intact –“I am a priest, I am priest” – we close in upon ourselves and are content just to get by.  The fragrance of our anointing no longer wafts through our lives; our hearts no longer expand but shrivel, disillusioned and disenchanted.  This is the problem, you know?  When the priesthood slowly degenerates into clericalism and the priest forgets that he is a pastor of the people and becomes instead a cleric of the state.

Yet this crisis also has the potential to be a turning point in our priesthood, the “decisive stage of the spiritual life, in which the ultimate choice has to be made between Jesus and the world, between heroic charity and mediocrity, between the cross and comfort, between holiness and dutiful fidelity to our religious obligations”.[5]  At the end of this celebration, they will give you a gift, a classic, a book that talks about this problem: “The second calling”.  It is a classic by Father Voillaume who touches on this problem. Read it.  All of us need to reflect on this moment in our priesthood.  It is that grace-filled moment when, like the disciples at Easter, we are called to be “sufficiently humble to admit that we have been won over by the suffering and crucified Christ, and to set out on a new journey, that of the Spirit, of faith and of a love that is strong, yet without illusions”.[6]  It is the kairos that enables us to realize that “it is not enough to abandon boat and nets in order to follow Jesus for certain time; it also demands going to Calvary, learning its lesson and receiving its fruit, and persevering with the help of the Holy Spirit to the end of a life meant to conclude in the perfection of divine charity”.[7]  With the help of the Holy Spirit: for us as for the apostles, it is the time of a “second anointing”, the time of our second calling, to which we have to listen; the second anointing in which the Spirit is poured out no longer on the enthusiasm of our hopes and dreams, but on the freedom of our concrete situation. An anointing that penetrates to the depths of our reality, where the Spirit anoints our weaknesses, our weariness, our inner poverty.  An anointing that brings a new fragrance: that of the Spirit, not of ourselves.  At this very moment, inwardly, I am thinking of some of you who are in crisis – let’s say – who are disoriented and do not know how find their way, how to get back on the road of this second anointing of the Spirit.  To these brothers – of whom I am thinking – I simply say: courage, the Lord is greater than your weaknesses, your sins.  Trust the Lord and let yourself be called a second time, this time with the anointing of the Holy Spirit.  A double life will not help you; not a chance, throw everything out the window.  Look ahead, let yourself be caressed by the anointing of the Holy Spirit.

This happens when we take the mature step of admitting the reality of our own weakness.  That is what “the Spirit of truth (Jn 16:13) tells us to do; he prompts us to look deep within and to ask: Does my fulfilment depend on my abilities, my position, the compliments I receive, my promotions, the respect of my superiors or coworkers, the comforts with which I surround myself?  Or on the anointing that spreads its fragrance everywhere in my life?  Dear brothers, priestly maturity comes from the Holy Spirit and is achieved when he becomes the protagonist in our lives.  Once that happens, everything turns around, even disappointments and bitter experiences – and also sins – since we are no longer trying to find happiness by adjusting details, but by giving ourselves completely to the Lord who anointed us and who wants that anointing to penetrate to the depths of our being.  Brothers, let us rediscover that the spiritual life becomes liberating and joyful, once we are no longer concerned to save appearances and make quick fixes, but leave the initiative to the Spirit and, in openness to his plans, show our willingness to serve wherever and however we are asked.  Our priesthood does not grow by quick fixes but by an overflow of grace!

If we allow the Spirit of Truth to act within us, we will preserve his anointing, because the various untruths – the hypocrisy of clericalism – with which we are tempted to live will come to light immediately.  And the Spirit who “cleanses what is unclean”, will tirelessly suggest to us “not to defile our anointing”, even in the least.  We think of that phrase of the Preacher, who says that “dying flies spoil the sweetness of the ointment” (10:1).  It is true, every form of duplicity – especially clerical duplicity – that insinuates itself is dangerous: it must not be tolerated, but brought into the light of the Spirit.  For “the heart is devious above all else; it is perverse, and who can heal it?” (Jer 17:9).  The Holy Spirit, he alone, heals our infidelities (cf. Hos 14:4).  For us, this an unavoidable struggle: it is indispensable, as Saint Gregory the Great wrote, that “those who proclaim the word of God, must first be concerned with their own way of life; then, based on his own life, he can learn what to say and how to say it…  Let no one presume to say more than what first he heard within”.[8]  The Spirit is that interior teacher to whom we must listen, recognizing that he desires to anoint every part of us.  Brothers, let us preserve our anointing, invoking the Spirit not as an occasional act of piety, but as the breath of each day.  Come, come, and preserve our anointing.  Consecrated by him, I am called to immerse myself in him, to make his life penetrate my darkness – and we all have this darkness – so that I can rediscover the truth of who and what I am.  Let us allow ourselves to be impelled by him to combat the untruths that struggle within us.  And let us allow ourselves to be reborn from him through adoration, for when we adore the Lord, he pours forth into our hearts his Spirit.

“The Spirit of the Lord God is upon me, because the Lord has anointed me; he has sent me”, so the prophecy continues, to bring good news, liberty, healing and grace (cf. Is 61:1-2; Lk 4:18-19): in a word, to bring harmony wherever it is lacking.  As Saint Basil said: “the Spirit is harmony”, he is the one that brings harmony.  After speaking to you about anointing, I would like to say something to you about the harmony that is its consequence.  Because the Holy Spirit is harmony.  Above all in heaven: Saint Basil notes that “all supercelestial and unspeakable harmony in the service of God and in the mutual symphony of the supercosmic powers, would be impossible to preserve, if not for the authority of the Spirit”.[9]  As well as on earth: in the Church, the Spirit is that “divine and musical harmony”[10] that binds everything together.  Let us think of a Presbyterate without harmony, without the Spirit: it would not work.  He awakens the diversity of charisms and brings them into unity; he creates concord based not on uniformity, but on the creativity of charity.  In this way, he creates harmony from multiplicity.  In this way, he creates harmony in the Presbyterate. At the time of the Second Vatican Council, itself a gift of the Spirit, a theologian published a study in which he spoke of the Spirit not as individual, but as plural.  He suggested thinking of the Spirit as a divine person who is not only singular but “plural”, as the “We of God”, the “We” of the Father and of the Son, since he is their bond.  The Holy Spirit is in himself concord, communion and harmony.[11]  I remember when I read this theological treatise – it was when I was studying theology – I was scandalized: it seemed like heresy, because in our training we did not quite understand who the Holy Spirit was.

To create harmony is what the Spirit desires, above all through those upon whom he has poured out his anointing.  Brothers, building harmony among ourselves is not simply a good way of improving the functioning of ecclesial structures, it is not the minuet dance, or a matter of strategy or politeness: it is an intrinsic demand of the life of the Spirit.  We sin against the Spirit who is communion whenever we become, even unintentionally, instruments of division.  For example, I would mention again the topic of gossip.  When we become instruments of division we sin against the Spirit. And whenever we play the game of the enemy, who never comes out into the open, who loves gossip and insinuation, foments parties and cliques, fuels nostalgia for times past, distrust, pessimism and fear.  Let us take care, please, not to defile the anointing of the Holy Spirit and the robe of Holy Mother Church with disunity, polarization or lack of charity and communion.  Let us remember that the Spirit, as “the We of God”, prefers the “shape” of community: willingness with regard to one’s own needs, obedience with regard to one’s own tastes, humility with regard to one’s own claims.

Harmony is not one virtue among others; it is something more.  As Saint Gregory the Great writes: “the worth of the virtue of concord is shown by the fact that without it, the other virtues have no value whatsoever”.[12]  Let us help one another, brothers, to preserve harmony – this is the task – starting not from others but each of us from himself.  Let us ask ourselves: In my words, in my comments, in what I say and write, is there the seal of the Spirit or that of the world?  Do I think about the kindness of the priest – but more often than not, we priests, we are rude – let us think about the kindness of the priest: if people see, in us too, people who are dissatisfied and discontented bachelors, who criticize and point fingers, where else will they find harmony?  How many people fail to approach us, or keep at a distance, because in the Church they feel unwelcomed and unloved, regarded with suspicion and judged?  In God’s name, let us be welcoming and forgiving, always!  And let us remember that being irritable and full of complaints does not produce good fruits, but spoils our preaching, since it is a counter-witness to God, who is communion in harmony.  Above all, it displeases greatly the Holy Spirit, whom the apostle Paul urges us not to grieve (cf. Eph 4:30).

Dear brothers, I leave you with these thoughts that come from my heart, and I conclude with two simple and important words: Thank you.  Thank you for your witness and for your service.  Thank you for the hidden good you do, and for the forgiveness and consolation that you bestow in God’s name.  Always forgive, please, do not withhold forgiveness.  Thank you for your ministry, which is often carried out with great effort, with little recognition and is not always understood.  Brothers, may the Spirit of God, who does not disappoint those who trust in him, fill you with peace and bring to conclusion the good work he began in you, so that you may be prophetic witnesses of his anointing and apostles of harmony.

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[1] Nicene-Constantinopolitan Creed.
[2] Cf. Sequence for the Solemnity of Pentecost.
[3] De Spiritu Santo, 16, 39.
[4] Cf. IRENAEUS, Adv. Haer., IV, 20, 1.
[5] R. VOILLAUME, “La seconda chiamata”, in S. STEVEN, ed. La seconda chiama.  Il coraggio della fragilità, Bologna. 2018, 15.
[6] Ibid., 24.
[7] Ibid., 16.
[8] Homilies on Ezekiel, I, X, 13-14.
[9] De Spiritu Sancto, XVI, 38.
[10] In Ps. 29, 1.
[11] Cf. H. MÜHLEN, Der Heilige Gest als Person. Ich-Du-Wir, Münster in W., 1963.
[12] Homilies on Ezekiel, I, VIII, 8.

[00555-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

»Der Geist des Herrn ruht auf mir« (Lk 4,18): Mit diesem Vers begann die Verkündigung Jesu, und mit demselben Vers begann das Wort Gottes, das wir heute gehört haben (vgl. Jes 61,1). Am Anfang steht also der Geist des Herrn.

Und über ihn möchte ich heute mit euch nachdenken, liebe Mitbrüder, über den Geist des Herrn. Denn ohne den Geist des Herrn gibt es kein christliches Leben, und ohne seine Salbung gibt es keine Heiligkeit. Er ist der Hauptakteur, und es ist schön, heute, am Tag der Einsetzung des Priestertums, zu erkennen, dass er am Ursprung unseres Dienstes steht, am Ursprung des Lebens und der Lebendigkeit eines jeden Hirten. Tatsächlich lehrt uns die Heilige Mutter Kirche zu bekennen, dass der Heilige Geist »lebendig macht«[1], wie Jesus sagte: »Der Geist ist es, der lebendig macht« (Joh 6,63); eine Lehre, die vom Apostel Paulus aufgegriffen wurde, der schrieb: »der Buchstabe tötet, der Geist aber macht lebendig« (2 Kor 3,6), und der vom »Gesetz des Geistes und des Lebens in Christus Jesus« (Röm 8,2) sprach. Ohne ihn wäre die Kirche auch nicht die lebendige Braut Christi, sondern allenfalls eine mehr oder weniger gute religiöse Organisation; sie wäre nicht der Leib Christi, sondern ein von Menschenhand errichteter Tempel. Wie also kann die Kirche aufgebaut werden, wenn nicht ausgehend von dem Umstand, dass wir „Tempel des Heiligen Geistes“ sind, der „in uns wohnt“ (vgl. 1 Kor 6,19; 3,16)? Wir können ihn nicht außen vor lassen oder ihn in irgendeiner Andachtszone parken, nein, er gehört ins Zentrum! Wir müssen jeden Tag sagen: „Komm, denn ohne dein Wirken kann im Menschen nichts bestehen“[2].

Der Geist des Herrn ruht auf mir. Jeder von uns kann dies sagen; das ist keine Anmaßung, es ist wirklich so, denn jeder Christ, insbesondere jeder Priester, kann sich die folgenden Worte zu eigen machen: »Denn der Herr hat mich gesalbt« (Jes 61,1). Liebe Brüder, ohne Verdienst, aus reiner Gnade haben wir eine Salbung empfangen, die uns zu Vätern und Hirten in Gottes heiligem Volk gemacht hat. Bleiben wir also bei diesem Aspekt des Geistes: der Salbung.

Nach der ersten „Salbung“, die im Schoß Marias erfolgte, kam der Geist am Jordan auf Jesus herab. Danach wurde, so sagt der heilige Basilius, »jede Handlung [Christi] mit der gleichzeitigen Anwesenheit des Heiligen Geistes vollzogen«[3]. In der Tat hat er in der Kraft jener Salbung gepredigt und Zeichen gewirkt, durch sie »ging eine Kraft von ihm aus, die alle heilte« (Lk 6,19). Jesus und der Geist wirken immer zusammen, so dass sie wie die beiden Hände des Vaters sind[4] - Ireneus sagt das –, die sich uns entgegenstrecken, uns umarmen und aufrichten. Und durch sie sind unsere Hände gezeichnet, die vom Geist Christi gesalbt sind. Ja, liebe Brüder, der Herr hat uns nicht nur auserwählt und auf die ein oder andere Weise gerufen: Er hat in uns die Salbung seines Geistes eingegossen, desselben Geistes, der auf die Apostel herabkam. Brüder, wir sind Gesalbte.

Schauen wir also auf sie, auf die Apostel. Jesus hat sie erwählt, und auf seinen Ruf hin verließen sie ihre Boote, ihre Netze, ihre Häuser und so weiter... Die Salbung durch das Wort hat ihr Leben verändert. Mit Begeisterung folgten sie dem Meister und begannen zu predigen, in der Überzeugung, dass sie später noch größere Dinge vollbringen würden; bis dann die österlichen Tage kamen. Da schien alles zu enden: Sie gingen so weit, den Meister zu verleugnen und zu verlassen. Wir brauchen keine Angst zu haben. Lasst uns mutig auf unser eigenes Leben und unsere Fehler schauen. Sie gingen soweit, dass sie ihren Meister verleugneten und im Stich ließen, Petrus der erste. Sie wurden sich ihrer Unzulänglichkeit bewusst und erkannten, dass sie ihn nicht verstanden hatten: Das »Ich kenne diesen Menschen nicht« (Mk 14,71), das Petrus nach dem letzten Abendmahl im Hof des Hohepriesters aussprach, ist nicht nur eine impulsive Verteidigung, sondern ein Eingeständnis geistlicher Unwissenheit: Er und die anderen hatten sich vielleicht ein erfolgreiches Leben im Gefolge eines Messias erwartet, der Menschenmengen anzog und Wunder vollbrachte, aber sie sahen den Skandal des Kreuzes nicht ein, der ihre Gewissheiten erschütterte. Jesus wusste, dass sie es nicht allein schaffen würden, und deshalb versprach er ihnen den Beistand des Heiligen Geistes. Und es war genau jene „zweite Salbung“ zu Pfingsten, die die Jünger verwandelte und sie dazu brachte, die Herde Gottes zu hüten und nicht mehr sich selbst. Und das ist der Widerspruch, den es aufzulösen gilt: Bin ich Hirte des Volkes Gottes oder meiner selbst? Und da ist der Geist, der mich den Weg lehrt. Es war jene Salbung mit Feuer, die ihre auf sich selbst und ihre eigenen Fähigkeiten konzentrierte Religiosität auslöschte: Nachdem er den Geist empfangen hatte, verflüchtigen sich die Ängstlichkeit und die Wankelmütigkeit des Petrus; Jakobus und Johannes, die vor Sehnsucht brennen, ihr Leben hinzugeben, hören auf, nach Ehrenplätzen zu streben (vgl. Mk 10,35-45), unser Karrierestreben, Brüder; die anderen bleiben nicht mehr eingeschlossen und ängstlich im Abendmahlssaal, sondern gehen hinaus und werden Apostel in der Welt. Es ist der Geist, der unser Herz verwandelt, der es auf jene andere, neue Ebene bringt.

Brüder, einen ähnlichen Verlauf nimmt unser priesterliches und apostolisches Leben. Auch für uns gab es eine erste Salbung, die mit einem Ruf der Liebe begann, der unser Herz erobert hat. Seinetwegen haben wir die Anker gelichtet und auf diese echte Begeisterung kam die Kraft des Geistes herab, die uns weihte. Danach kommt nach Gottes Zeitplan für einen jeden die österliche Phase, die den Augenblick der Wahrheit darstellt. Und das ist ein Moment der Krise, der verschiedene Formen annimmt. Alle erleben früher oder später Enttäuschungen, Mühen, Schwächen angesichts des Ideals, das sich unter den Anforderungen der Wirklichkeit abzunutzen scheint, ein gewisser Alltagstrott macht sich breit, und bestimmte Prüfungen, die man sich vorher nur schwer vorstellen konnte, lassen die Treue schwieriger erscheinen als in früheren Zeiten. Diese Phase – dieser Versuchung, dieser Prüfung, die wir alle hatten, haben und haben werden – diese Phase stellt für diejenigen, die die Salbung erhalten haben, einen entscheidenden Grat dar. Man kann ihn auf eine schlechte Weise verlassen, in eine gewisse Mittelmäßigkeit abgleiten und sich müde in einer „Normalität“ fortschleppen, in die sich drei gefährliche Versuchungen einschleichen können: die des Kompromisses, wobei man sich mit dem begnügt, was man tun kann; die der Surrogate, bei der man versucht, mit etwas anderem als mit unserer Salbung „aufzutanken“; die der Entmutigung – sie ist die am meisten verbreitete –, bei der man unzufrieden aus reiner Gewohnheit weitermacht. Und hier liegt die große Gefahr: Während der Schein gewahrt bleibt – „Ich bin Priester“ –, verkrümmt man sich in sich selbst und schlägt sich lustlos durchs Leben; der Duft der Salbung verleiht dem Leben keinen Wohlgeruch mehr; und das Herz weitet sich nicht, sondern verengt sich eingewickelt in Ernüchterung. Das ist ein Destillationsprozess, verstehst du? Wenn das Priestertum langsam in den Klerikalismus abgleitet und der Priester vergisst, dass er ein Hirte des Volkes ist, um ein Staatskleriker zu werden.

Aber diese Krise kann auch zum Wendepunkt des Priesterlebens werden, zur »entscheidenden Etappe des geistlichen Lebens, in der die endgültige Wahl getroffen werden muss zwischen Jesus und der Welt, zwischen dem Heldenhaften der Nächstenliebe und der Mittelmäßigkeit, zwischen dem Kreuz und einem gewissen Wohlbefinden, zwischen der Heiligkeit und einer braven Treue zum religiösen Engagement«[5]. Am Ende dieser Feier werden sie euch einen Klassiker als Geschenk überreichen, ein Buch, das sich mit diesem Problem befasst: „Die zweite Berufung“, es ist ein Klassiker von Pater Voillaume, der dieses Problem anspricht, lest es. Wir alle müssen über diesen Aspekt unseres Priestertums nachdenken. Es ist der segensreiche Moment, in dem wir wie die Jünger an Ostern aufgerufen sind, »demütig genug zu sein, um zu bekennen, dass wir von dem erniedrigten und gekreuzigten Christus besiegt worden sind, und bereitwillig einen neuen Weg zu beginnen, den des Geistes, des Glaubens und einer starken Liebe ohne Illusionen«[6]. Es ist der Kairos, in dem wir wie die Jünger an Ostern entdecken, dass »das Ganze sich nicht darauf beschränkt, das Boot und die Netze zu verlassen, um Jesus eine gewisse Zeit nachzufolgen, sondern es erfordert, dass wir den ganzen Weg nach Golgota gehen und die Lehre und Frucht dieses Ereignisses annehmen und mit Hilfe des Heiligen Geistes bis zum Ende eines Lebens gehen, das in der Vollkommenheit der göttlichen Liebe enden muss«[7]. Mit der Hilfe des Heiligen Geistes: Es ist für uns, wie damals für die Apostel, die Zeit einer „zweiten Salbung“, die Zeit eines zweiten Rufes, auf den wir hören müssen, einer zweiten Salbung, bei der wir den Geist nicht in die Begeisterung unserer Träume, sondern in die Zerbrechlichkeit unserer Wirklichkeit hinein empfangen. Es ist eine Salbung, die tief im Innern Wahrheit bringt, so dass der Geist unsere Schwächen, unsere Mühen und unsere innere Armut salben kann. Dann duftet die Salbung von neuem: nach ihm, nicht nach uns. In diesem Moment denke ich in meinem Inneren an einige von euch, die sich in einer Krise befinden - sagen wir mal - die orientierungslos sind und nicht wissen, wie sie in dieser zweiten Salbung des Geistes den Weg wiederaufnehmen können. Diesen Brüdern - ich habe sie vor mir - sage ich einfach: Habt Mut, der Herr ist größer als deine Schwächen, als deine Sünden. Vertraue dich dem Herrn an und lass dich von ihm ein zweites Mal rufen, diesmal mit der Salbung des Heiligen Geistes. Das Doppelleben wird dir nicht helfen; auch nicht, alles aus dem Fenster zu werfen. Schau nach vorne, lass dich von der Salbung des Heiligen Geistes umschmeicheln.

Und der Weg zu diesem Schritt der Reifung ist das Eingeständnis der eigenen Schwachheit. Dazu ermahnt uns »der Geist der Wahrheit« (Joh 16,13), der uns dazu bewegt, tief in uns zu gehen und uns zu fragen: Hängt meine Verwirklichung davon ab, wie gut ich bin, von der Aufgabe, die ich erhalte, von den Komplimenten, die ich bekomme, von der Karriere, die ich mache, von den Vorgesetzten oder Mitarbeitern, die ich habe, von den Annehmlichkeiten, die ich mir sichern kann, oder von der Salbung, die mein Leben mit Wohlgeruch erfüllt? Brüder, zur priesterlichen Reife gelangt man durch den Heiligen Geist, sie vollzieht sich, wenn er der Hauptakteur unseres Lebens wird. Dann erscheint alles in einer neuen Perspektive, auch die Enttäuschungen und die Bitterkeit – auch die Sünden –, denn es geht nicht mehr darum, sich besser zu fühlen, indem man etwas in Ordnung bringt, sondern darum, sich vorbehaltlos demjenigen zu übereignen, der uns mit seiner Salbung durchtränkt hat und bis ins Innerste zu uns herabkommen will. Dann Brüder, entdecken wir neu, dass das geistliche Leben nicht dann frei und freudig wird, wenn man Formen wahrt und einen Flicken aufnäht, sondern wenn man dem Geist die Initiative überlässt und wir im Vertrauen auf seine Pläne bereit sind zu dienen, wo und wie es von uns verlangt wird: Unser Priestertum wächst nicht durch Flickarbeit, sondern durch Überfließen!

Wenn wir den Geist der Wahrheit in uns wirken lassen, werden wir die Salbung bewahren – die Salbung bewahren –, denn die Unwahrheiten – die klerikalen Heucheleien – die Falschheiten, mit denen wir zu leben versucht sind, werden schnell ans Licht kommen. Und der Geist, der „wäscht, was befleckt ist“, wird uns unermüdlich drängen, „die Salbung nicht zu beflecken“, nicht einmal ein wenig. Da kommt einem der Satz von Kohelet in den Sinn, der sagt: »Sterbende Fliegen – da stinkt und gärt sogar das duftende Öl für die Schönheitspflege« (10,1). Es stimmt, dass jede Unlauterkeit – die klerikale Unlauterkeit, bitte – jede Unlauterkeit, die sich einschleicht, gefährlich ist: Sie darf nicht geduldet werden, sondern muss ans Licht des Geistes gebracht werden. Denn auch wenn es stimmt, dass das Herz »arglistig ohnegleichen ist […] und unverbesserlich« (Jer 17,9), so heilt uns doch der Heilige Geist, und nur er allein, von der Untreue (vgl. Hos 14,5). Das ist für uns ein unvermeidlicher Kampf. Es ist in der Tat unverzichtbar, wie der heilige Gregor der Große schrieb, dass »derjenige, der das Wort Gottes verkündet, sich zuerst seinem eigenen Lebenswandel widmet, damit er dann aus seinem eigenen Leben lernt, was und wie er es sagen soll. [...] Niemand soll sich anmaßen, nach außen hin etwas zu sagen, was er nicht zuvor im Innern gehört hat«[8]. Und es ist der Geist, der der innere Lehrmeister ist, auf den wir hören müssen, im Wissen darüber, dass es nichts an uns gibt, was er nicht salben möchte. Brüder, lasst uns die Salbung bewahren: die Anrufung des Heiligen Geistes möge nicht eine gelegentliche Übung sein, sondern der Atem eines jeden Tages. Komm, komm, bewahre die Salbung. Ich als von ihm Gesalbter bin aufgerufen, mich in ihn zu versenken, sein Licht in die undurchsichtigen Bereiche meines Lebens – davon haben wir viele – eindringen zu lassen, um wiederzuentdecken was ich in Wahrheit bin. Lassen wir uns von ihm dazu bewegen, das Unaufrichtige zu bekämpfen, das sich in uns regt, und lassen wir uns von ihm in der Anbetung erneuern, denn wenn wir den Herrn anbeten, gießt er seinen Geist in unsere Herzen ein.

»Der Geist Gottes, des Herrn, ruht auf mir. Denn der Herr hat mich gesalbt; er hat mich gesandt«, so heißt es in der Prophetie weiter, und er hat mich gesandt, die Frohbotschaft, Befreiung, Heilung und Gnade zu bringen (vgl. Jes 61,1-2; Lk 4,18-19): mit einem Wort, Harmonie zu bringen, wo keine ist. Denn, wie der heilige Basilius sagt: „Der Geist ist Harmonie“, er ist es, der Harmonie schafft. Nachdem ich zu euch von der Salbung gesprochen habe, möchte ich nun etwas über die Harmonie sagen, die ihre Folge ist. Der Heilige Geist ist nämlich Harmonie. Zunächst im Himmel: Der heilige Basilius erklärt, dass »es unmöglich ist, dass all die überirdische und unaussprechliche Harmonie im Dienst Gottes und im wechselseitigen Zusammenklingen der überirdischen Mächte erhalten wird, wenn nicht durch die Autorität des Geistes «[9]. Und dann auf der Erde: In der Kirche ist er in der Tat jene »göttliche und musikalische Harmonie«[10], die alles miteinander verbindet. Aber stellt euch einen Priester vor ohne Harmonie, ohne den Geist: das funktioniert nicht. Er erweckt die Vielfalt der Charismen und fügt sie zu einer Einheit zusammen, er schafft eine Eintracht, die nicht auf Vereinheitlichung beruht, sondern auf der Kreativität der Nächstenliebe. So schafft er Harmonie unter den Vielen. So schafft er Harmonie in einem Priester. In den Jahren des Zweiten Vatikanischen Konzils, das ein Geschenk des Geistes gewesen ist, veröffentlichte ein Theologe ein Werk, in dem er vom Heiligen Geist nicht in einem individuellen, sondern in einem pluralen Sinn sprach. Er lud ein, ihn als eine göttliche Person zu betrachten, die nicht so sehr in der Einzahl, sondern in der „Mehrzahl“ ist, als das „Wir Gottes“, das Wir des Vaters und des Sohnes, denn er ist ihre Verbindung, er ist in sich selbst Eintracht, Gemeinschaft, Harmonie[11]. Ich erinnere mich, als ich diese theologische Abhandlung las - es war während des Theologiestudiums - war ich empört: Es schien mir wie eine Häresie, denn in unserer Ausbildung verstand man nicht wirklich, was es mit dem Heiligen Geist auf sich hat.

Was er will, ist Harmonie zu schaffen, besonders durch diejenigen, in die er seine Salbung eingegossen hat. Brüder, Harmonie unter uns zu schaffen ist nicht so sehr eine gute Methode zur Verbesserung des kirchlichen Gefüges, es geht auch nicht um einen Gesellschaftstanz, es ist keine Frage der Strategie oder der Höflichkeit: Es ist eine innere Notwendigkeit im Leben des Geistes. Man versündigt sich gegen den Geist, der Gemeinschaft ist, wenn man auch nur leichtfertig zu einem Werkzeug der Spaltung wird, zum Beispiel – und wir kommen wieder zum demselben Thema zurück – das Gerede. Wenn wir zu Werkzeugen der Spaltung werden, sündigen wir gegen den Geist. Und man betreibt damit das Spiel des Feindes, der nicht in die Öffentlichkeit tritt und Gerüchte und Unterstellungen liebt, der Parteienbildungen und Seilschaften fördert und die Sehnsucht nach der Vergangenheit sowie Entmutigung, Pessimismus und Angst nährt. Lasst uns bitte darauf bedacht sein, die Salbung des Geistes und das Gewand der Heiligen Mutter Kirche nicht mit Uneinigkeit, Polarisierungen oder mit fehlender Nächstenliebe und Gemeinschaft zu beschmutzen. Erinnern wir uns daran, dass der Geist, das „Wir Gottes“, die gemeinschaftliche Form bevorzugt: also die Hilfsbereitschaft gegenüber den eigenen Bedürfnissen, den Gehorsam gegenüber den eigenen Vorlieben, die Demut gegenüber den eigenen Ansprüchen.

Die Harmonie ist nicht eine Tugend unter anderen, sie ist mehr. Der heilige Gregor der Große schreibt: »Wie viel die Tugend der Eintracht wert ist, zeigt der Umstand, dass ohne sie alle anderen Tugenden überhaupt nichts wert sind«[12]. Helfen wir uns gegenseitig, liebe Brüder, die Harmonie zu bewahren, die Harmonie zu wahren – das wäre die Aufgabe – indem wir nicht bei den anderen anfangen, sondern ein jeder bei sich selbst, und wir uns fragen: Tragen meine Worte, meine Äußerungen, das, was ich sage und schreibe, das Mal des Geistes oder das der Welt? Ich denke auch an die Liebenswürdigkeit des Priesters – aber oft sind die Priester, wir … sind ungezogen –: denken wir an die Liebenswürdigkeit des Priesters, wenn die Menschen auch in uns nur unerfüllte Menschen, unzufriedene Menschen finden, Junggesellen, die kritisieren und mit dem Finger auf andere zeigen, wo werden sie dann Harmonie erleben? Wie viele kommen nicht zu uns oder wenden sich ab, weil sie sich in der Kirche nicht angenommen und geliebt, sondern misstrauisch beäugt und verurteilt fühlen! Seien wir in Gottes Namen gastfreundlich und vergeben wir, immer! Und denken wir daran, dass eine abweisende und jammernde Art nicht nur nichts Gutes bewirkt, sondern auch der Verkündigung schadet, weil sie das Gegenteil eines Zeugnisses für Gott darstellt, der Gemeinschaft und Harmonie ist. Das missfällt vor allem dem Heiligen Geist sehr, den wir gemäß der Ermahnung des Apostels Paulus nicht betrüben sollen (vgl. Eph 4,30).

Brüder, ich überlasse euch diese Gedanken, die aus dem Herzen kamen, und schließe mit einem einfachen und wichtigen Wort an euch: Danke. Danke für euer Zeugnis, danke für euren Dienst; danke für das viele verborgene Gute, das ihr tut, danke für die Vergebung und den Trost, den ihr im Namen Gottes spendet: immer vergeben, bitte, nie die Vergebung verweigern; danke für euren Dienst, der oft mit viel Mühe einhergeht und häufig nicht verstanden wird und wenig Anerkennung findet. Brüder, möge euch der Geist Gottes, der diejenigen, die auf ihn vertrauen, nicht enttäuscht, mit Frieden erfüllen und das vollenden, was er in euch begonnen hat, damit ihr Propheten seiner Salbung und Apostel der Harmonie seid.

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[1] Großes Glaubensbekenntnis.
[2] Vgl. Pfingstsequenz.
[3] Über den Heiligen Geist 16,39.
[4] Vgl. Irenäus von Lyon, Gegen die Häresien IV,20,1.
[5] R. Voillaume, «La seconda chiamata», in S. Stevan (Hrsg.), ed., La Seconda chiamata. Il coraggio della fragilità, Bologna 2018, 15.
[6] Ebd., 24.
[7] Ebd., 16.
[8] Homilien zu Ezechiel I, X, 13-14.
[9] Über den Heiligen Geist XVI, 38.
[10] Homilien über die Psalmen 29,1.
[11] Vgl. H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster 1963.
[12] Homilien zu Ezechiel I,VIII,8.

[00555-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

«El Espíritu del Señor está sobre mí» (Lc 4,18). A partir de este versículo comenzó la predicación de Jesús y este mismo versículo dio inicio a la Palabra que acabamos de escuchar (cf. Is 61,1). Así pues, al principio está el Espíritu del Señor.

Y sobre Él quisiera reflexionar hoy con ustedes, queridos hermanos, sobre el Espíritu del Señor. Porque sin el Espíritu del Señor no hay vida cristiana y, sin su unción, no hay santidad. Él es el protagonista y, en este día en que nació el sacerdocio, es hermoso reconocer que Él está en el origen de nuestro ministerio, de la vida y de la vitalidad de todo pastor. En efecto, la santa Madre Iglesia nos enseña a profesar que el Espíritu Santo es «dador de vida»[1], como lo afirmó Jesús diciendo: «El Espíritu es el que da Vida» (Jn 6,63); una enseñanza de la que se hizo eco el apóstol Pablo, quien escribió que «la letra mata, pero el Espíritu da vida» (2 Co 3,6) y habló de «la ley del Espíritu, que da la Vida […] en Cristo Jesús» (Rm 8,2). Sin Él, tampoco la Iglesia sería la Esposa viva de Cristo, sino a lo sumo una organización religiosa —más o menos buena—; no sería el Cuerpo de Cristo, sino un templo construido por manos humanas. ¿Cómo, pues, puede edificarse la Iglesia, si no es a partir del hecho de que somos “templos del Espíritu Santo” que “habita en nosotros»” (cf. 1 Co 6,19; 3,16)? No podemos dejarlo de lado o aparcarlo en alguna zona de devoción. No, debemos ponerlo en el centro. Necesitamos decirle cada día: “Ven porque sin tu ayuda divina no hay nada en el hombre”[2].

El Espíritu del Señor está sobre mí. Cada uno de nosotros puede decir esto; y no es presunción, es una realidad, pues todo cristiano, especialmente todo sacerdote, puede hacer suyas las siguientes palabras: «porque el Señor me ha ungido» (Is 61,1). Hermanos, sin méritos, por pura gracia hemos recibido una unción que nos ha hecho padres y pastores en el Pueblo santo de Dios. Consideremos, pues, este aspecto del Espíritu: la unción.

Tras la primera “unción” que tuvo lugar en el vientre de María, el Espíritu descendió sobre Jesús en el Jordán. Después de esto, como explica san Basilio, «toda acción [de Cristo] se iba realizando con la copresencia del Espíritu Santo»[3]. En efecto, por el poder de esa unción, predicaba y realizaba signos; en virtud de ella «salía de Él una fuerza que sanaba a todos» (Lc 6,19). Jesús y el Espíritu actúan siempre juntos, de modo que son como las dos manos del Padre[4] —Ireneo dice esto— que, extendidas hacia nosotros, nos abrazan y nos levantan. Y por ellas fueron marcadas nuestras manos, ungidas por el Espíritu de Cristo. Sí, hermanos, el Señor no sólo nos ha elegido y llamado de aquí y de allá, sino que ha derramado en nosotros la unción de su Espíritu, el mismo Espíritu que descendió sobre los Apóstoles. Hermanos, nosotros somos “ungidos”.

Fijémonos, pues, en ellos, en los Apóstoles. Jesús los eligió y a su llamada dejaron sus barcas, sus redes, sus casas y todo lo demás. La unción de la Palabra cambió sus vidas. Con entusiasmo siguieron al Maestro y comenzaron a predicar, convencidos de que más tarde realizarían cosas aún mayores; hasta que llegó la Pascua. Allí todo pareció detenerse; llegaron a renegar y a abandonar al Maestro. No debemos tener miedo. Seamos valientes para leer nuestra propia vida y nuestras caídas. Ellos llegaron a renegar y a abandonar al Maestro, Pedro el primero. Tomaron conciencia de su propia incapacidad y se dieron cuenta de que no lo habían entendido. El “no conozco a ese hombre” (cf. Mc 14,71), que Pedro pronunció en el patio del sumo sacerdote después de la Última Cena, no es sólo una defensa impulsiva, sino una confesión de ignorancia espiritual: él y los demás quizá se esperaban una vida de éxito detrás de un Mesías que atraía multitudes y hacía prodigios, pero no reconocían el escándalo de la cruz, que echó por tierra sus certezas. Jesús sabía que no lograrían nada solos, y por eso les prometió el Paráclito. Y fue precisamente esa “segunda unción”, en Pentecostés, la que transformó a los discípulos, llevándolos a pastorear el rebaño de Dios y ya no a sí mismos. Esta es la contradicción que debemos resolver: ¿soy pastor del pueblo de Dios o de mí mismo? Y es el Espíritu el que nos enseña el camino. Fue esa unción fervorosa la que extinguió su religiosidad centrada en sí mismos y en sus propias capacidades. Al recibir el Espíritu, los miedos y vacilaciones de Pedro se evaporan; Santiago y Juan, consumidos por el deseo de dar la vida, dejan de buscar puestos de honor (cf. Mc 10,35-45), nuestro carrerismo, hermanos; los demás ya no permanecen encerrados y temerosos en el cenáculo, sino que salen y se convierten en apóstoles en el mundo. Es el Espíritu el que cambia nuestro corazón, el que lo pone en ese plano distinto, diferente.

Hermanos, un itinerario como éste abarca nuestra vida sacerdotal y apostólica. También para nosotros hubo una primera unción, que comenzó con una llamada de amor que cautivó nuestros corazones. Por ella soltamos las amarras, y sobre ese entusiasmo genuino descendió la fuerza del Espíritu, que nos consagró. Luego, según el tiempo de Dios, llega para cada uno la etapa pascual, que marca el momento de la verdad. Y es un momento de crisis, que reviste diversas formas. A todos, antes o después, nos sucede que experimentamos decepciones, dificultades, debilidades, con el ideal que parece desgastarse entre las exigencias de la realidad, mientras se impone una cierta costumbre; y algunas pruebas, antes difíciles de imaginar, hacen que la fidelidad parezca más difícil que antes. Esta etapa —de esta tentación, de esta prueba que todos tuvimos, tenemos y tendremos— esta etapa representa un momento culminante para quienes han recibido la unción. De ella se puede salir mal parado, deslizándose hacia una cierta mediocridad, arrastrándose cansinamente hacia una “normalidad” en la que se insinúan tres tentaciones peligrosas: la del compromiso, por la que uno se conforma con lo que puede hacer; la de los sucedáneos, por la que uno intenta “llenarse” con algo distinto respecto a nuestra unción; la del desánimo —que es lo más común—, por la que, insatisfecho, uno sigue adelante por pura inercia. Y aquí está el gran riesgo: mientras las apariencias permanecen intactas —“Yo soy sacerdote, yo soy cura”—, nos replegamos sobre nosotros mismos y seguimos adelante desmotivados; la fragancia de la unción ya no perfuma la vida y el corazón; y el corazón ya no se ensancha, sino que se encoge, envuelto en el desencanto. Es un destilado, ¿entiendes? Cuando el sacerdocio lentamente va deslizándose hacia el clericalismo y el sacerdote se olvida de ser pastor del pueblo, para convertirse en un clérigo estatal.

Pero esta crisis puede convertirse también en el punto de inflexión del sacerdocio, en la «etapa decisiva de la vida espiritual, en la que hay que hacer la elección definitiva entre Jesús y el mundo, entre la heroicidad de la caridad y la mediocridad, entre la cruz y un cierto bienestar, entre la santidad y una honesta fidelidad al compromiso religioso»[5]. Al final de esta celebración les darán como regalo un clásico, un libro que trata este problema: “La segunda llamada”, es un clásico del padre Voillaume que aborda este problema, léanlo. Por otra parte, todos nosotros necesitamos reflexionar sobre este momento de nuestro sacerdocio. Es el momento bendito en el que, como los discípulos en Pascua, estamos llamados a ser «suficientemente humildes para confesarnos vencidos por Cristo humillado y crucificado, y aceptar iniciar un nuevo camino, el del Espíritu, el de la fe y el de un amor fuerte y sin ilusiones»[6]. Es el kairós en el que descubre que «las cosas no se reducen a abandonar la barca y las redes para seguir a Jesús durante un tiempo determinado, sino que exige ir hasta el Calvario, acoger la lección y el fruto, e ir con la ayuda del Espíritu Santo hasta el final de una vida que debe terminar en la perfección de la divina Caridad»[7]. Con la ayuda del Espíritu Santo: es el tiempo, para nosotros como para los Apóstoles, de una “segunda unción”, tiempo de una segunda llamada que debemos escuchar, para la segunda unción, en la que acojamos al Espíritu no en el entusiasmo de nuestros sueños, sino en la fragilidad de nuestra realidad. Es una unción que desvela la verdad en lo profundo de nosotros mismos, que le permite al Espíritu ungir nuestras debilidades, nuestros trabajos, nuestra pobreza interior. Entonces la unción tiene de nuevo buen olor: la fragancia de Cristo, no la nuestra. En este momento, interiormente, estoy haciendo memoria de algunos de ustedes que están en crisis —digámoslo así— que están desorientados y que no saben cómo afrontar el camino, cómo retomar el camino en esta segunda unción del Espíritu. A estos hermanos —yo los tengo presentes— simplemente les digo: ánimo, el Señor es más grande que tu debilidad, que tus pecados. Abandónate en el Señor y déjate llamar una segunda vez, esta vez con la unción del Espíritu Santo. La doble vida no te ayudará; tirar todo por la ventana, tampoco. Mira hacia adelante, déjate acariciar por la unción del Espíritu Santo.

Y el camino para este paso de maduración es admitir la verdad de la propia debilidad. A esto nos exhorta «el Espíritu de la Verdad» (Jn 16,13), que nos impulsa a mirar hasta el fondo de nosotros mismos, para preguntarnos: ¿mi realización depende de lo bueno que soy, del cargo que obtengo, de los cumplidos que recibo, de la carrera que hago, de los superiores o colaboradores, o de las comodidades que puedo garantizarme, o de la unción que perfuma mi vida? Hermanos, la madurez sacerdotal pasa por el Espíritu Santo, se realiza cuando Él se convierte en el protagonista de nuestra vida. Entonces todo cambia de perspectiva, incluso las decepciones y las amarguras —también los pecados—, porque ya no se trata de mejorar componiendo algo, sino de entregarnos, sin reservarnos nada, a Aquel que nos ha impregnado en su unción y quiere llegar hasta lo más profundo de nosotros. Hermanos, redescubramos entonces que la vida espiritual se vuelve libre y gozosa no cuando se guardan las formas y se hace un remiendo, sino cuando se deja la iniciativa al Espíritu y, abandonados a sus designios, nos disponemos a servir donde y como se nos pida. ¡Nuestro sacerdocio no crece remendando, sino desbordándose!

Si dejamos actuar en nosotros al Espíritu de la verdad custodiaremos la unción —custodiar la unción—, porque enseguida saldrán a la luz las falsedades —las hipocresías clericales—, las falsedades con las que estamos tentados de convivir. Y el Espíritu, que “lava las manchas”, nos sugerirá, sin cansarse, que “no manchemos la unción”, ni un poco. Me viene a la memoria aquella frase de Qohélet que dice: «Una mosca muerta corrompe y hace fermentar el óleo del perfumista» (10,1). Es verdad, toda doblez —la doblez clerical, por favor— toda doblez que se insinúa es peligrosa, no hay que tolerarla, sino sacarla a la luz del Espíritu. Porque si «nada es más tortuoso que el corazón humano y no tiene arreglo» (Jr 17,9), el Espíritu Santo es el único que nos cura de la infidelidad (cf. Os 14,5). Para nosotros es una lucha a la que no podemos renunciar, en efecto, es indispensable, como escribía san Gregorio Magno, que «quien predica la palabra de Dios considere primero cómo debe vivir, para que luego, de su vida, deduzca qué y cómo debe predicar. [...] que no se atreva a decir exteriormente lo que no hubiera oído primero en el interior»[8]. El maestro interior al que hay que escuchar es el Espíritu, sabiendo que no hay nada en nosotros que Él no quiera ungir. Hermanos, custodiemos la unción; que invocar al Espíritu no sea una práctica ocasional, sino el aliento de cada día. Ven, ven, custodia la unción. Yo, ungido por Él, estoy llamado a sumergirme en Él, a dejar que su luz entre en mis sombras —tenemos tantas— para encontrar la verdad de lo que soy. Dejémonos impulsar por Él para combatir las falsedades que se agitan en nuestro interior; y dejémonos regenerar por Él en la adoración, porque cuando lo adoramos, Él derrama su Espíritu en nuestros corazones.

«El Espíritu del Señor está sobre mí, porque el Señor me ha ungido. Él me envió» —continúa la profecía—, y me envió a llevar una buena nueva, liberación, curación y gracia (cf. Is 61,1-2; Lc 4,18-19); en una palabra, a llevar armonía donde no la hay. Porque como dice san Basilio: “El Espíritu es armonía”, es Él el que crea la armonía. Después de haberles hablado de la unción, quisiera decirles algo sobre esta armonía, que es su consecuencia. En efecto, el Espíritu Santo es armonía. Antes que nada, en el cielo. San Basilio explica que «toda esa armonía sobrecelestial e indecible en el servicio de Dios y en la sinfonía mutua de las potencias supracósmicas, es imposible que se conserve si no es por la autoridad del Espíritu»[9]. Y luego, en la tierra. Él es, en efecto, en la Iglesia, esa «Armonía divina y musical»[10] que lo une todo;. si no, piensen en un presbítero sin armonía, sin Espíritu, no funciona. Él suscita la diversidad de los carismas y la recompone en la unidad, crea una concordia que no se basa en la homologación, sino en la creatividad de la caridad. Así crea armonía en la multiplicidad. Así crea armonía en un presbítero. En los años del Concilio Vaticano II, que fue un don del Espíritu, un teólogo publicó un estudio en el que hablaba del Espíritu no en clave individual, sino plural. Invitaba a pensar en él como una Persona divina no tanto singular, sino “plural”, como el “nosotros de Dios”, el “nosotros” del Padre y del Hijo, porque es su nexo, es en sí mismo concordia, comunión, armonía[11]. Recuerdo que cuando leí este tratado teológico —estaba estudiando teología— me escandalicé, me parecía una herejía, porque en nuestra formación no se entendía bien cómo era el Espíritu Santo.

Crear armonía es lo que Él desea, especialmente a través de aquellos en quienes ha derramado su unción. Hermanos, crear armonía entre nosotros no es sólo un método adecuado para que la coordinación eclesial funcione mejor, no es bailar el minué, no es una cuestión de estrategia o cortesía, sino una exigencia interna de la vida en el Espíritu. Se peca contra el Espíritu, que es comunión, cuando nos convertimos, aunque sea por ligereza, en instrumentos de división, por ejemplo —y volvemos al mismo tema— con las murmuraciones. Cuando somos instrumentos de división pecamos contra el Espíritu. Y le hacemos el juego al enemigo, que no sale a la luz y ama los rumores y las insinuaciones, que fomenta los partidos y las cordadas, alimenta la nostalgia del pasado, la desconfianza, el pesimismo, el miedo. Tengamos cuidado, por favor, de no ensuciar la unción del Espíritu y el manto de la Santa Madre Iglesia con la desunión, con las polarizaciones, con cualquier falta de caridad y de comunión. Recordemos que el Espíritu, “el nosotros de Dios”, prefiere la forma comunitaria: es decir, la disponibilidad respecto a las propias necesidades, la obediencia respecto a los propios gustos, la humildad respecto a las propias pretensiones.

La armonía no es una virtud entre otras, es mucho más. San Gregorio Magno escribe: «De cuánto valga, pues, la virtud de la concordia consta, puesto que, sin ella, queda demostrado que las demás virtudes no son virtudes»[12]. Ayudémonos, hermanos, a custodiar la armonía, custodiar la armonía —esta es la tarea—, empezando no por los demás, sino por uno mismo; preguntándonos: mis palabras, mis comentarios, lo que digo y escribo, ¿tienen el sello del Espíritu o el del mundo?

Pienso también en la amabilidad del sacerdote —porque muchas veces los curas, nosotros, somos unos maleducados—; pensemos en la amabilidad del sacerdote: si la gente encuentra incluso en nosotros personas insatisfechas, personas descontentas, solterones, que critican y señalan con el dedo, ¿dónde descubrirán la armonía? ¡Cuánta gente no se acerca o se aleja porque en la Iglesia no se siente acogida y amada, sino mirada con recelo y juzgada! En nombre de Dios, ¡acojamos y perdonemos siempre! Recordemos que ser agrios y quejumbrosos, además de no producir nada bueno, corrompe el anuncio, porque contra-testimonia a Dios, que es comunión y armonía. Y esto desagrada mucho y sobre todo al Espíritu Santo, a quien el apóstol Pablo nos exhorta a no entristecer (cf. Ef 4,30).

Hermanos, les dejo estas reflexiones que han salido del corazón y concluyo dirigiéndoles una palabra sencilla e importante: gracias. Gracias por su testimonio, gracias por su servicio; gracias por el mucho bien escondido que hacen, gracias por el perdón y el consuelo que dan en nombre de Dios: perdonar siempre, por favor, nunca negar el perdón; gracias por su ministerio, que a menudo se realiza en medio de mucho esfuerzo, incomprensiones y poco reconocimiento. Hermanos, que el Espíritu de Dios, que no defrauda a los que confían en Él, los llene de paz y lleve a término lo que ha comenzado en ustedes, para que sean profetas de su unción y apóstoles de armonía.

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[1] Símbolo niceno-constantinopolitano.
[2] Cf. Secuencia de Pentecostés.
[3] Spir. 16,39.
[4] Cf. Ireneo, Adv. haer. IV,20,1.
[5] R. Voillaume, «La seconda chiamata», en S. Stevan, ed. La Seconda chiamata. Il coraggio della fragilità, Bolonia 2018, 15.
[6] Ibíd., 24.
[7] Ibíd., 16.
[8] Homilías sobre Ezequiel, I,X,13-14.
[9] Spir. XVI, 38.
[10] In Ps. 29,1.
[11] Cf. H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963.
[12] Homilías sobre Ezequiel, I,VIII,8.

[00555-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

«O Espírito do Senhor está sobre mim» (Lc 4, 18): partindo deste versículo começou a pregação de Jesus e, do mesmo versículo, partiu a Palavra que hoje escutamos (cf. Is 61, 1). Portanto, no princípio, está o Espírito do Senhor.

E é sobre Ele que hoje quero refletir convosco, amados irmãos, pois, sem o Espírito do Senhor, não há vida cristã e, sem a sua unção, não há santidade. O Espírito é o protagonista e é bom hoje, no dia do nascimento do sacerdócio, reconhecer que Ele está na origem do nosso ministério, da vida e da vitalidade de cada Pastor. Com efeito, a santa Mãe Igreja ensina-nos a professar que é o Espírito Santo que «dá a vida»,[1] como afirmou Jesus, quando disse: «É o Espírito quem dá a vida» (Jo 6, 63); ensinamento retomado pelo apóstolo Paulo, quando escreve que «a letra mata, enquanto o Espírito dá vida» (2 Cor 3, 6) e falou da «lei do Espírito, que dá a vida (…) em Cristo Jesus» (Rm 8, 2). Sem Ele, nem sequer a Igreja seria a Esposa viva de Cristo, mas, no máximo, uma organização religiosa, mais ou menos boa; não seria o Corpo de Cristo, mas um templo construído por mãos de homem. Então como edificar a Igreja senão a partir do facto de sermos «templos do Espírito Santo» (1 Cor 6, 19; 3, 16), que habita em nós? Não podemos deixá-Lo fora de casa ou arrumá-Lo em qualquer área devocional, mas colocá-Lo no centro. Precisamos diariamente de dizer: «Vinde, porque sem a vossa força e favor clemente, nada há no homem que seja inocente».[2]

Cada um de nós pode dizer: O Espírito do Senhor está sobre mim. E não é presunção, é realidade, já que cada cristão, e de modo particular cada sacerdote, pode fazer suas as palavras que se lhe seguem: «porque o Senhor me consagrou com a unção» (Is 61, 1). Irmãos, sem mérito nosso, por pura graça, recebemos uma unção que nos fez pais e pastores no Povo santo de Deus. Detenhamo-nos, pois, neste aspeto do Espírito: a unção.

Depois da primeira «unção» que aconteceu no ventre de Maria, o Espírito desceu sobre Jesus no Jordão. Em seguida, como explica São Basílio, «cada ação [de Cristo] gozava da com-presença do Espírito Santo».[3] Pois, com o poder daquela unção, Ele pregava e realizava sinais, em virtude daquela unção «emanava d’Ele uma força que a todos curava» (Lc 6, 19). Jesus e o Espírito trabalham sempre juntos, como se fossem as duas mãos do Pai – assim o diz Santo Ireneu[4] – que, estendidas para nós, nos abraçam e levantam. E, por elas, foram marcadas as nossas mãos, ungidas pelo Espírito de Cristo. Sim, irmãos, o Senhor não Se limitou a escolher-nos e chamar-nos ora daqui ora dali, mas infundiu em nós a unção do seu Espírito, o mesmo que desceu sobre os Apóstolos. Irmãos, somos «ungidos».

Fixemos então o nosso olhar nos Apóstolos. Jesus escolheu-os e, à sua chamada, deixaram os barcos, as redes, a casa, etc. A unção da Palavra mudou-lhes a vida. Com entusiasmo, seguiram o Mestre e começaram a pregar, convencidos que, depois, realizariam coisas ainda maiores; até que chegou a Páscoa. Parece que então tudo ficou suspenso: chegaram a negar e abandonar o Mestre. Não devemos ter medo, sejamos corajosos a ler a nossa própria vida e as nossas quedas. Chegaram a negar e abandonar o Mestre, a começar por Pedro. Puderam dar-se conta do grande desajustamento entre a visão deles e a de Jesus, e perceberam que não O tinham compreendido: a frase «não conheço esse homem» (Mc 14, 71), que Pedro alegou no pátio do sumo sacerdote depois da Última Ceia, não é mera defesa impulsiva, mas uma admissão de ignorância espiritual: ele e os outros talvez estivessem à espera duma vida de sucessos atrás dum Messias que arrastava multidões e fazia prodígios, mas não reconheciam o escândalo da cruz, que esfarelou as suas certezas. Jesus sabia que eles, sozinhos, não conseguiriam e, por isso, prometeu-lhes o Paráclito. E foi precisamente aquela «segunda unção», no Pentecostes, que transformou os discípulos, levando-os a apascentar o rebanho de Deus, e já não a si mesmos. Esta é a contradição que temos de resolver: sou pastor do povo de Deus ou de mim mesmo? E, para me ensinar a estrada, temos o Espírito. Foi aquela unção de fogo que extinguiu uma religiosidade centrada neles mesmos e nas próprias capacidades: acolhido o Espírito, evaporam-se os medos e as hesitações de Pedro; Tiago e João, consumidos pelo anseio de dar a vida, deixam de procurar lugares de honra (cf. Mc 10, 35-45), o nosso carreirismo, irmãos; os outros deixam de estar fechados e temerosos no Cenáculo, mas saem e tornam-se apóstolos pelo mundo inteiro. É o Espírito que muda o nosso coração, que o coloca num plano diverso.

Irmãos, um itinerário semelhante abraça a nossa vida sacerdotal e apostólica. Também para nós houve uma primeira unção, com início numa chamada cheia de amor que nos arrebatou o coração. Por ela, soltamos as amarras e, sobre um genuíno entusiasmo, desceu a força do Espírito que nos consagrou. Depois, segundo os tempos de Deus, havia de chegar para cada um a etapa pascal, que marca a hora da verdade. Trata-se dum momento de crise, que possui várias formas. A todos sucede, mais cedo ou mais tarde, experimentar desilusões, cansaços e fraquezas, com o ideal que parece diluir-se perante as exigências da realidade, substituído por uma certa rotina; e algumas provações – difíceis de imaginar antes – fazem aparecer a fidelidade mais incómoda do que outrora. Esta etapa – a da tentação, da prova que todos nós tivemos, temos e teremos – esta etapa representa, para quem recebeu a unção, um cume decisivo. Dele, pode-se sair mal, deixando-se planar rumo a uma certa mediocridade, arrastando-se cansado numa «normalidade» cinzenta onde se insinuam três perigosas tentações: a da acomodação, em que a pessoa se contenta com o que pode fazer; a da substituição, em que se tenta «recarregar» o espírito com algo diferente da nossa unção; a do desânimo – a mais comum –, em que, insatisfeitos, se avança por inércia. E aqui está o grande risco: permanecem intactas as aparências – sou sacerdote, sou padre –, enquanto a pessoa se fecha em si mesma e conduz a vida na apatia; a fragrância da unção deixou de perfumar a vida, e o coração, em vez de se dilatar, restringe-se envolvido pelo desencanto. É um destilado, sabeis? Quando o sacerdócio desliza lentamente para o clericalismo e o padre esquece-se de ser pastor do povo, para se tornar um clérigo de Estado.

Mas aquela crise pode tornar-se também um ponto de viragem no sacerdócio, a «etapa decisiva da vida espiritual, em que se deve efetuar a última escolha entre Jesus e o mundo, entre a heroicidade da caridade e a mediocridade, entre a cruz e um certo bem-estar, entre a santidade e uma honesta fidelidade ao compromisso religioso».[5] No final desta celebração, vão dar-vos de presente um clássico, um livro que trata deste problema: «A segunda chamada». É um clássico do Padre Voillaume, que aborda este problema. Lede-o! Com efeito todos nós precisamos de refletir sobre este momento do nosso sacerdócio. É o momento abençoado em que nós, como os discípulos na Páscoa, somos chamados a ser «suficientemente humildes para nos confessarmos vencidos por Cristo humilhado e crucificado, e para aceitarmos iniciar um novo caminho, o do Espírito, da fé e dum amor forte e sem ilusões».[6] É o chairos, no qual se descobre que «o todo não se reduz a abandonar o barco e as redes para seguir Jesus durante um certo tempo, mas exige ir até ao Calvário, acolher a sua lição e fruto, e ir com a ajuda do Espírito Santo até ao fim duma vida que deve terminar na perfeição da Caridade divina».[7] Com a ajuda do Espírito Santo: é o tempo para nós, como o foi para os Apóstolos, duma «segunda unção», tempo duma segunda chamada que devemos escutar para receber a segunda unção, em que se acolhe o Espírito não sobre o entusiasmo dos nossos sonhos, mas na fragilidade da nossa realidade. É uma unção que mostra a verdade no mais fundo de nós mesmos e que permite ao Espírito ungir as nossas fragilidades, os nossos cansaços, a nossa pobreza interior. Então a unção volta a perfumar d’Ele, não de nós. Neste momento, interiormente, recordo alguns de vós que estão em crise – digamos assim – que estão desorientados e não sabem como retomar o caminho, como voltar ao caminho nesta segunda unção do Espírito. A estes irmãos – tenho-os presente – digo simplesmente: Coragem, o Senhor é maior que as tuas fraquezas, os teus pecados. Entrega-te ao Senhor e deixa-te chamar uma segunda vez, esta vez com a unção do Espírito Santo. A vida dupla não te ajudará; lançar tudo pela janela, também não. Olha para a frente, deixa-te acariciar pela unção do Espírito Santo.

E o caminho para este passo de amadurecimento é admitir a verdade da própria fragilidade. A isto nos exorta «o Espírito da Verdade» (Jo 16, 13), que nos leva a olhar profundamente dentro de nós mesmos, a perguntar-nos: a minha realização depende da minha habilidade, da função que consigo obter, dos elogios que recebo, da carreira que faço, dos superiores ou colaboradores que tenho, das comodidades que me posso assegurar, ou então depende da unção que perfuma a minha vida? Irmãos, a maturidade sacerdotal passa pelo Espírito Santo, realiza-se quando Ele Se torna o protagonista da nossa vida. Então tudo muda de perspetiva, inclusive as desilusões e amarguras – mesmo os pecados –, porque já não se trata de procurar aperfeiçoar-se ajustando qualquer coisa, mas de nos entregarmos, sem nada reter para nós, Àquele que nos impregnou na sua unção e quer descer até ao fundo de nós mesmos. Irmãos, então voltaremos a descobrir que a vida espiritual torna-se livre e feliz, não quando se salvam as aparências e se coloca um remendo, mas quando se deixa a iniciativa ao Espírito e, abandonados aos seus desígnios, nos dispomos a servir onde e como nos for pedido: o nosso sacerdócio cresce, não com remendos, mas por transbordamento!

Se deixarmos agir em nós o Espírito da Verdade, guardaremos a unção – guardar a unção –, porque virão imediatamente à luz do dia as falsidades – as hipocrisias clericais –, as falsidades com que somos tentados a viver. E o Espírito, que «lava o que [no homem] há de impuro», sugerir-nos-á sem descanso para não mancharmos minimamente a unção. Vem-me à mente aquela frase de Qohélet, que diz: «Uma mosca morta infeta e estraga o azeite perfumado» (10, 1). É verdade! Toda a duplicidade – incluindo a duplicidade clerical – toda a duplicidade que se insinua é perigosa: não deve ser tolerada, mas levada à luz do Espírito. Porque, se não há «nada mais enganador que o coração, tantas vezes perverso» (Jr 17, 9), o Espírito Santo, e só Ele, nos cura das infidelidades (cf. Os 14, 5). Para nós, trata-se duma luta imprescindível: de facto é indispensável, como escreveu São Gregório Magno, que, «quem anuncia a palavra de Deus, antes se debruce sobre o seu próprio modo de viver, para que, haurindo da própria vida, aprenda o que dizer e como dizê-lo. (...) Ninguém presuma dizer fora o que antes não ouviu dentro».[8] E o mestre interior que devemos escutar é o Espírito, sabendo que não há nada em nós que Ele não queira ungir. Irmãos, guardemos a unção: a invocação do Espírito seja, não uma prática ocasional, mas a respiração de cada dia. Vinde, vinde, guardai a unção. Eu, consagrado pelo Espírito, sou chamado a mergulhar n’Ele, a deixar entrar a sua luz nas minhas opacidades – temos tantas –, para reencontrar a verdade daquilo que sou. Deixemo-nos impelir por Ele no combate às falsidades que se agitam dentro de nós; e deixemo-nos regenerar por Ele na adoração, porque, quando adoramos o Senhor, Ele derrama nos nossos corações o seu Espírito.

«O espírito do Senhor está sobre mim, porque o Senhor me ungiu: enviou-me para levar a boa-nova» (Is 61, 1; cf. Lc 4, 18-19) e levar – lê-se no prosseguimento da profecia – libertação, cura e graça; numa palavra, para levar harmonia onde não há. Pois, como diz São Basílio, «o Espírito é harmonia», é Ele que faz a harmonia. Depois de vos ter falado da unção, quero dizer-vos algo sobre esta harmonia, que é sua consequência. De facto, o Espírito Santo é harmonia; antes de mais nada, no Céu: São Basílio explica que «toda aquela harmonia supraceleste e inefável no serviço de Deus e na sinfonia mútua das potências supracósmicas, é impossível conservá-la a não ser pela autoridade do Espírito».[9] E, depois, na terra: na Igreja, Ele é realmente aquela «Harmonia divina e musical»[10] que tudo une. Mas imaginai um presbitério sem harmonia, sem o Espírito: não funciona. Ele suscita a diversidade dos carismas e recompõe-na na unidade, cria uma concórdia que não se funda na uniformização, mas na criatividade da caridade. Assim cria harmonia entre muitos. Assim faz harmonia num presbitério. Durante os anos do Concílio Vaticano II, que foi um dom do Espírito, um teólogo publicou um estudo no qual falava do Espírito em chave, não individual, mas plural. Convidou a imaginá-Lo como uma Pessoa divina não tanto singular, mas «plural», como o «nós de Deus», o nós do Pai e do Filho, porque é a sua ligação; é, em Si mesmo, concórdia, comunhão, harmonia.[11] Recordo-me que, quando li este tratado teológico – estava em teologia, nos meus estudos – fiquei escandalizado: parecia uma heresia, porque, na nossa formação, não se compreendia bem como era o Espírito Santo.

Tudo o que deseja é criar harmonia, principalmente através daqueles sobre quem derramou a sua unção. Irmãos, construir a harmonia entre nós não é tanto um método bom, para que a comunidade eclesial caminhe melhor, não é bailar o minuet, nem é questão de estratégia ou de cortesia, mas é sobretudo uma exigência interna na vida do Espírito. Peca-se contra o Espírito, que é comunhão, quando nos tornamos, mesmo por frivolidade, instrumentos de divisão, por exemplo – e voltamos ao mesmo tema – com a murmuração. Quando nos tornamos instrumentos de divisão, pecamos contra o Espírito. E faz-se o jogo do inimigo, que nunca sai a descoberto mas gosta de boatos e insinuações, fomenta partidos e fações, alimenta a nostalgia do passado, a desconfiança, o pessimismo, o medo. Por favor, estejamos atentos a não manchar a unção do Espírito e o vestido da Santa Mãe Igreja com a desunião, com as polarizações, com qualquer falta de caridade e comunhão. Recordemos que o Espírito, «o nós de Deus», prefere a forma comunitária, isto é, a disponibilidade acima das exigências próprias, a obediência acima dos próprios gostos, a humildade acima das próprias pretensões.

A harmonia não é apenas uma virtude entre outras. São Gregório Magno escreve: «Quanto valha a virtude da concórdia demonstra-o o facto de que, sem ela, todas as outras virtudes não valem absolutamente nada».[12] Ajudemo-nos, irmãos, a conservar a harmonia, conservar a harmonia – este seria o meu dever de casa – começando não pelos outros, mas pelo próprio, perguntando-me: nas minhas palavras, nos meus comentários, naquilo que digo e escrevo, há a marca do Espírito ou a do mundo? Penso também na gentileza do sacerdote – tantas vezes nós, padres, somos uns mal-educados –: pensemos na gentileza do sacerdote se o povo, até em nós, encontra pessoas insatisfeitas, pessoas descontentes, solteirões, que criticam e acusam, onde poderá ele ver a harmonia? Quantos não se aproximam ou até se afastam, porque na Igreja não se sentem acolhidos e amados, mas olhados com desconfiança e julgados! Em nome de Deus, acolhamos e perdoemos sempre! E lembremo-nos de que ser ríspido e lamuriento, além de não produzir nada de bom, corrompe o anúncio, porque é contratestemunho de Deus, que é comunhão e harmonia. E isto desagrada tanto e sobretudo ao Espírito Santo, que o apóstolo Paulo nos exorta a não entristecer (cf. Ef 4, 30).

Irmãos, deixo-vos estes pensamentos que me vieram do coração e concluo dirigindo-vos uma palavra simples e importante: obrigado! Obrigado pelo vosso testemunho, obrigado pelo vosso serviço; obrigado por tanto bem escondido que fazeis, obrigado pelo perdão e a consolação que ofereceis em nome de Deus: perdoai sempre, por favor, nunca negueis o perdão; obrigado pelo vosso ministério, que muitas vezes se desenrola no meio de tantas fadigas, incompreensões e pouco reconhecimento. Irmãos, o Espírito de Deus, que não desilude quem coloca n’Ele a própria confiança, vos encha de paz e leve a bom termo aquilo que em vós começou, para serdes profetas da sua unção e apóstolos de harmonia.

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[1] Credo de Niceia-Constantinopla.
[2] Sequência, na Missa de Pentecostes.
[3] Liber de Spiritu Sancto XVI, 39.
[4] Cf. Ireneu, Adversus haereses IV, 20, 1.
[5] R. Voillaume, «La seconda chiamata», in S. Stevan (ed.), La seconda chiamata. Il coraggio della fragilità (Bolonha 2018), 15.
[6] Ibid., 24.
[7] Ibid., 16.
[8] Homiliae in Ezechielem, I, X, 13-14.
[9] Liber de Spiritu Sancto XVI, 38.
[10] In Psalmos 29, 1.
[11] Cf. H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir (Múnster in Westfália 1963).
[12] Homiliae in Ezechielem, I, VIII, 8.

[00555-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

„Duch Pański spoczywa na Mnie” (Łk 4, 18): od tego wersetu rozpoczęło się przepowiadanie Jezusa i tym samym wersetem rozpoczęło się słowo Boże, które dziś usłyszeliśmy (por. Iz 61, 1). U początku jest zatem Duch Pański.

I właśnie na Nim chciałbym skupić dzisiaj rozważanie z wami, drodzy współbracia, na Duchu Pańskim. Bez Ducha Pańskiego nie ma bowiem życia chrześcijańskiego, a bez Jego namaszczenia nie ma świętości. On jest protagonistą, a dziś, w dniu narodzin kapłaństwa, wspaniale jest uznać, że to On jest u źródła naszej posługi, życia i żywotności każdego pasterza. I rzeczywiście, święty Kościół Matka uczy nas wyznawać, że Duch Święty jest „Ożywicielem”[1], co potwierdził Jezus, mówiąc: „To Duch daje życie” (J 6, 63); do tego nauczania nawiązał apostoł Paweł, który napisał, że „litera zabija, Duch zaś ożywia” (2 Kor 3, 6), i który mówił o „prawie Ducha, który daje życie w Chrystusie Jezusie” (por. Rz 8, 2). Bez Niego także Kościół nie byłby żyjącą Oblubienicą Chrystusa, lecz co najwyżej organizacją religijną – lepszą lub gorszą -; nie byłby Ciałem Chrystusa, lecz świątynią zbudowaną ludzkimi rękami. Jak zatem budować Kościół, jeśli nie w oparciu o to, że jesteśmy „świątyniami Ducha Świętego”, który „w nas mieszka” (por. 1 Kor 6, 19; 3, 16)? Nie możemy pozostawić Go na zewnątrz ani umieścić w jakiejś sferze kultu, przeciwnie musi być w centrum. Każdego dnia potrzebujemy mówić: „Przyjdź, bo bez Twojego tchnienia, cóż jest wśród stworzenia”[2].

Duch Pański spoczywa na Mnie. Każdy z nas może to wypowiedzieć; nie jest to domniemanie, lecz rzeczywistość, jako że każdy chrześcijanin, a zwłaszcza każdy kapłan może przyjąć jako swoje następujące słowa: „Bo Pan mnie namaścił” (Iz 61, 1). Bracia, nie z powodu zasług, ale z czystej łaski otrzymaliśmy namaszczenie, które uczyniło nas ojcami i pasterzami pośród świętego Ludu Bożego. Zastanówmy się zatem nad tym aspektem Ducha: namaszczeniem.

Po pierwszym „namaszczeniu”, które dokonało się w łonie Maryi, Duch Święty zstąpił na Jezusa nad Jordanem. Od tego momentu, jak wyjaśnia św. Bazyli, „cała działalność [Chrystusa] toczy się przy współobecności Ducha”[3]. Głosił bowiem i czynił znaki mocą tego namaszczenia, dzięki któremu „moc wychodziła od Niego i uzdrawiała wszystkich” (Łk 6, 19). Jezus i Duch Święty zawsze działają razem, tak że są niczym dwie ręce Ojca[4] - mówi to świty Ireneusz - , które wyciągnięte ku nam, obejmują nas i podnoszą. I przez Nich zostały naznaczone nasze ręce, namaszczone Duchem Chrystusa. Tak, bracia, Pan nie tylko nas wybrał i powołał stąd czy stamtąd: wylał On na nas namaszczenie swego Ducha, tego samego, który zstąpił na Apostołów. Bracia, jesteśmy „pomazańcami”

Popatrzmy zatem na nich, na Apostołów. Jezus ich wybrał, a na Jego wezwanie porzucili łodzie, sieci i dom i tak dalej. Namaszczenie Słowem zmieniło ich życie. Z entuzjazmem poszli za Nauczycielem i zaczęli głosić, przekonani, że dokonają później jeszcze większych rzeczy; aż do czasu nadejścia Paschy. Wówczas wszystko jakby się zatrzymało – doszli oni aż do zaparcia się i opuszczenia Mistrza. Nie musimy się bać. Odważnie odczytujemy swoje własne życie i nasze upadki. Posunęli się do zaparcia się i opuszczenia Mistrza, a Piotr jako pierwszy. Uznali swoje ograniczenia i zrozumieli, że Go nie pojęli. Słowa: „Nie znam tego człowieka” (Mk 14, 71), które Piotr wypowiedział na dziedzińcu arcykapłana po Ostatniej Wieczerzy, są nie tylko impulsywną obroną, ale przyznaniem się do duchowej ignorancji: on i inni, idąc za Mesjaszem, który przyciągał tłumy i czynił cuda, spodziewali się prawdopodobnie życia pełnego sukcesów, ale nie dopuszczali skandalu krzyża, który zburzył ich pewność. Jezus wiedział, że sami sobie nie poradzą, dlatego obiecał im Parakleta. I właśnie to „drugie namaszczenie”, w dniu Pięćdziesiątnicy, przemieniło uczniów, sprawiając, że stali się pasterzami Bożej owczarni, a nie samych siebie. I to jest ta sprzeczność którą trzeba rozwiązać: czy jestem pasterzem ludu Bożego, czy siebie samego? To Duch Święty uczy mnie drogi. Właśnie tamto namaszczenie ogniem położyło kres ich religijności, skupionej na sobie samych i na własnych zdolnościach. Po przyjęciu Ducha znikają lęki i wahania Piotra; Jakub i Jan, rozpaleni pragnieniem oddania życia, przestają uganiać się za zaszczytnymi stanowiskami (por. Mk 10, 35-45), to nasze uganianie się za karierą, bracia; pozostali nie pozostają już zamknięci i zalęknieni w Wieczerniku, ale wychodzą i stają się apostołami w świecie. To Duch Święty przemienia nasze serce, stawia je na tej innej, odmiennej płaszczyźnie.

Bracia, podobna droga obejmuje nasze życie kapłańskie i apostolskie. Także w naszym przypadku miało miejsce pierwsze namaszczenie, które zaczęło się wezwaniem miłości i które porwało nasze serca. Ze względu na nie zakotwiczyliśmy się, a na ten szczery entuzjazm zstąpiła moc Ducha, który nas konsekrował. Następnie, zgodnie z Bożym czasem, przychodzi dla każdego etap paschalny, będący momentem prawdy. A jest to moment kryzysu, przybierającego różne formy. Wszystkim, wcześniej czy później zdarza się doświadczyć rozczarowań, znużenia i słabości, kiedy wydaje się, że ideał słabnie między wymaganiami rzeczywistości, kiedy pojawia się pewne przyzwyczajenie, a w niektórych próbach, wcześniej niewyobrażalnych, wierność jawi się bardziej niewygodna, niż wcześniej. Ten etap owej pokusy, tej próby, jaką miał, ma i będzie miał każdy z nas - ten etap jest punktem decydującym dla tych, którzy otrzymali namaszczenie. Można z niego wyjść źle, popadając w pewną przeciętność, snując się znużeni w pewnej „normalności”, w którą wkradają się trzy niebezpieczne pokusy: pokusa kompromisu, sprawiająca, że zadowalamy się tym, co daje się zrobić; pokusa namiastek, w związku z którą usiłujemy „podładować się” czymś innym niż nasze namaszczenie; pokusa zniechęcenia, będąc najczęstszą - z powodu której będąc niezadowoleni, poruszamy się siłą bezwładu. I oto tutaj wielkie zagrożenie – choć pozornie wszystko pozostaje bez zmian - „Jestem kapłanem, jestem księdzem” -, zamykamy się w sobie i, apatyczni, staramy się przetrwać. Woń namaszczenia nie nadaje już zapachu życiu, a serce nie poszerza się, lecz serce kurczy się, ogarnięte rozczarowaniem. To jest destylat, wiesz? Gdy kapłaństwo powoli popada w klerykalizm, a ksiądz zapomina, że ma być pasterzem ludu, by stać się funkcjonariuszem państwowym.

Jednak ten kryzys może stać się również punktem zwrotnym kapłaństwa, „decydującym etapem życia duchowego, kiedy trzeba dokonać ostatecznego wyboru między Jezusem a światem, między heroicznością miłości a przeciętnością, między krzyżem a pewnym dobrobytem, między świętością a szczerą wiernością powinnościom religijnym”[5]. Na zakończenie tej uroczystości dadzą wam w prezencie klasykę, książkę, która porusza ten problem: „Drugie powołanie”, to klasyka autorstwa ojca Voillaume, która dotyka tego problemu, przeczytajcie ją. Ponadto wszyscy musimy zastanowić się nad tym momentem naszego kapłaństwa. Jest to błogosławiona chwila, w której, jak uczniowie podczas Paschy, jesteśmy wezwani, abyśmy byli „dostatecznie pokorni, żeby wyznać, że zostaliśmy zwyciężeni przez upokorzonego i ukrzyżowanego Chrystusa, i aby zgodzić się na rozpoczęcie nowej drogi, drogi Ducha, wiary i silnej miłości bez złudzeń”[6]. Jest to kairos, w którym odkrywa, że „cała sprawa nie sprowadza się do porzucenia łodzi i sieci, aby iść za Jezusem przez pewien czas, ale wymaga pójścia aż na Kalwarię, przyjęcia jej nauki i owoców i, z pomocą Ducha Świętego, podążania aż do kresu życia, które powinno zakończyć się w doskonałości Bożej Miłości”[7]. Z pomocą Ducha Świętego: dla nas, tak jak dla apostołów, jest to czas „drugiego namaszczenia”,  czas drugiego wezwania, które powinniśmy wysłuchać, drugiego namaszczenia, kiedy trzeba przyjąć Ducha nie ze względu na entuzjazm naszych marzeń, ale w kruchości naszej rzeczywistości. Jest to namaszczenie, rodzące prawdę w głębi, która pozwala Duchowi namaścić nasze słabości, nasze znużenia, nasze wewnętrzne ubóstwo. Wtedy namaszczenie roznosi woń: z Niego, nie z nas. W tej chwili, wewnętrznie, pamiętam o niektórych z was przeżywających kryzys - powiedzmy to tak- którzy są zdezorientowani i nie wiedzą, jak obrać drogę, jak powrócić na właściwe tory w tym drugim namaszczeniu Ducha. Tym braciom - mam ich na myśli - mówię po prostu: nabierzcie odwagi, Pan jest większy niż twoje słabości, niż twoje grzechy. Powierz się Panu i pozwól się Jemu powołać po raz drugi, tym razem z namaszczeniem Ducha Świętego. Podwójne życie ci nie pomoże; wyrzucenie wszystkiego przez okno, również nie. Patrz przed siebie, niech obdarzy cię czułością namaszczenie Ducha Świętego.

A drogą do tego kroku dojrzewania jest uznanie prawdy o własnej słabości. Do tego zachęca nas „Duch Prawdy” (J 16, 13), który pobudza nas do spojrzenia w głąb siebie, do postawienia sobie pytania: czy moje spełnienie zależy od moich umiejętności, od roli, jaką mi powierzono, od komplementów, jakie otrzymuję, od kariery, jaką robię, od moich przełożonych lub współpracowników, od wygód, jakie mogę sobie zapewnić, czy też od namaszczenia, które napełnia wonią moje życie? Bracia, dojrzałość kapłańska pochodzi od Ducha Świętego, dopełnia się, gdy On staje się protagonistą naszego życia. Wtedy wszystko zmienia perspektywę, nawet rozczarowania i gorycze – także i grzechy - , bo nie chodzi już o to, by starać się lepiej poczuć, poprawiając coś, ale o to, by, nic nie zatrzymując, powierzyć się Temu, który nas napełnił swoim namaszczeniem i pragnie zstąpić na nas, aż do samej głębi. Bracia, odkryjemy wówczas na nowo, że życie duchowe staje się wolne i radosne nie wtedy, gdy ocala się formy i przyszywa łatę, ale wówczas, gdy zostawia się inicjatywę Duchowi Świętemu i, zdając się na Jego zamysły, jesteśmy gotowi służyć tam gdzie, i w jaki sposób zostajemy wezwani: nasze kapłaństwo nie wzrasta za sprawą „łatania”, lecz przez przeobfitość!

Jeśli pozwolimy działać w nas Duchowi Prawdy, zachowamy namaszczenie, trzeba strzec namaszczenia - bowiem fałsze, - klerykalne hipokryzje - fałsze którymi jesteśmy kuszeni, aby współżyć, natychmiast wyjdą na jaw. A Duch, który „obmywa to, co nieświęte”, będzie nam niestrudzenie sugerował, żeby „nie splamić namaszczenia”, nawet w najmniejszym stopniu. Przychodzi na myśl zdanie z Księgi Koheleta, które mówi: „Martwa mucha zepsuje naczynie wonnego olejku” (10, 1). To prawda, każda obłuda – obłuda klerykalna, każda obłuda która się wkrada, jest niebezpieczna: nie należy jej tolerować, ale trzeba wydobyć ją na światło Ducha. Ponieważ, jeśli „serce jest zdradliwsze niż wszystko inne i niepoprawne” (Jr 17, 9), to Duch Święty, jedynie On, uleczy nas z niewierności (por. Oz 14, 5). Jest to dla nas walka, z której nie możemy zrezygnować: jest bowiem niezbędne, jak napisał św. Grzegorz Wielki, aby „ten, kto głosi słowo Boże, najpierw nauczył się, jak żyć, aby potem z życia mógł czerpać to, co powiedzieć i jak powiedzieć (...) ten, kto rozmyśla nad własnym życiem, na zewnątrz buduje innych” [8]. I to właśnie Duch jest wewnętrznym nauczycielem, którego należy słuchać, mając świadomość, że nie ma w nas nic, czego On nie chciałby namaścić. Bracia, strzeżmy namaszczenia: niech przyzywanie Ducha nie będzie okazjonalną praktyką, lecz oddechem każdego dnia. Przyjdź, przyjdź, strzeż namaszczenia.  Ja, namaszczony przez Niego, jestem wezwany, aby zanurzyć się w Nim, by pozwolić Jego światłu wejść w to, co we mnie mętne – a jest w nas tego wiele -, aby odnaleźć prawdę o tym, czym jestem. Pozwólmy, aby On pobudził nas do zwalczania fałszów, które nas niepokoją. Pozwólmy też, aby On odnawiał nas poprzez adorację, bo kiedy wielbimy Pana, wlewa On swojego Ducha w nasze serca.

„Duch Pański spoczywa na Mnie, ponieważ Pan Mnie namaścił i posłał Mnie” głosi dalej proroctwo, posłał mnie abym niósł radosną nowinę, wyzwolenie, uzdrowienie i łaskę (por. Iz 61, 1-2; Łk 4, 18-19): jednym słowem, abym niósł harmonię tam, gdzie jej nie ma. Bowiem jak mówi św. Bazyli: „Duch jest harmonią”, to On czyni harmonię. Po tym, jak powiedziałem wam o namaszczeniu, chciałbym powiedzieć coś o tej harmonii, która jest jego konsekwencją. Duch Święty bowiem jest harmonią. Najpierw w niebie: św. Bazyli wyjaśnia, że „całą tę ponadniebiańską i niewysłowioną harmonię w służbie Bożej i we wzajemnej zgodności sił nadziemskich można zachować tylko z władzą Ducha”[9]. A potem na ziemi: w Kościele jest On rzeczywiście ową „boską i muzyczną Harmonią”[10], która wszystko łączy. Ale pomyślcie o prezbiterium bez harmonii, bez Ducha: to nie działa. Wzbudza różnorodność charyzmatów i przekształca ją w jedność, tworzy zgodę, która nie opiera się na ujednoliceniu, lecz na kreatywności miłości. Tak tworzy harmonię pośród wielu. Tak tworzy harmonię pośród prezbiterium. W latach Soboru Watykańskiego II, który był darem Ducha, pewien teolog opublikował studium, w którym mówił o Duchu nie w kluczu jednostkowym, ale mnogości. Zachęcał do myślenia o Nim jako o Boskiej Osobie nie tyle pojedynczej, ile „mnogiej”, jako „my Boga”, my Ojca i Syna, ponieważ jest Ich powiązaniem, jest sam w sobie zgodą, komunią, harmonią[11]. Pamiętam, że kiedy przeczytałem ten traktat teologiczny - było to na teologii, podczas studiów - byłem zgorszony: wydawało mi się to herezją, ponieważ w naszym kształceniu nie bardzo rozumieliśmy, czym jest Duch Święty.

Tworzenie harmonii jest tym, czego pragnie, zwłaszcza za sprawą tych, w których wlał swoje namaszczenie. Bracia, budowanie harmonii między nami to nie tyle dobra metoda, aby lepiej funkcjonował Kościół, nie jest to tańczenie menueta,  ale jest to wewnętrzny wymóg życia Duchem. Kiedy stajemy się, choćby nieumyślnie, narzędziem podziału, na przykład – i powróćmy do tego samego tematu – poprzez plotkowanie. Kiedy stajemy się narzędziem podziału grzeszymy przeciwko Duchowi Świętemu. I wówczas gramy na korzyść nieprzyjaciela, który nie ujawnia się, i lubi plotki oraz insynuacje, wspiera partie i związki, podsyca nostalgię za przeszłością, nieufność, pesymizm, strach. Uważajmy, proszę, abyśmy przez rozłam, polaryzację, brak miłości i komunii, nie splamili namaszczenia Duchem i szaty Świętej Matki Kościoła. Pamiętajmy, że Duch, owo „my Boga”, preferuje formę wspólnotową: czyli dyspozycyjność, a nie własne potrzeby, posłuszeństwo, a nie własne upodobania, pokorę, a nie własne roszczenia.

Harmonia nie jest jedną z cnót pośród innych, jest czymś więcej. Święty Grzegorz Wielki pisze: „Jak cenna jest cnota zgody, ukazano w tym, że bez niej wszystkie inne cnoty nie mają znaczenia”[12]. Bracia, pomagajmy sobie nawzajem w strzeżeniu harmonii, - strzeżenie harmonii, to będzie zadanie - zaczynając nie od innych, lecz każdy od siebie samego; zadając sobie pytanie: czy w moich słowach, w moich komentarzach, w tym, co mówię i piszę, jest znamię Ducha, czy znamię świata? Czy myślę też o życzliwości kapłańskiej? - ale wiele razy księża, my...jesteśmy niegrzeczni - : pomyślmy o życzliwości księdza, bo jeśli ludzie widzą nawet w nas osoby niezadowolone i osoby rozgoryczone, starych kawalerów, krytykujących i wytykających palcami, to gdzie zobaczą harmonię? Jakże wielu nie zbliża się do Kościoła lub oddala się od niego, ponieważ nie czują się w nim akceptowani i kochani, ale postrzegani z podejrzliwością i osądzani!

W imię Boga przyjmujmy i przebaczajmy, zawsze! I pamiętajmy, że opryskliwość i narzekanie nie tylko nie przynoszą nic dobrego, lecz niszczą przepowiadanie, ponieważ są antyświadectwem Boga, który jest komunią i harmonią. A to zasmuca bardzo przede wszystkim Ducha Świętego, a apostoł Paweł napomina nas, abyśmy Go nie zasmucali (por. Ef 4, 30).

Bracia, pozostawiam wam te przemyślenia, które wypływają z serca, i kończę, kierując do was proste i ważne słowo: dziękuję. Dziękuję za wasze świadectwo i dziękuję za waszą posługę; dziękuję za wielkie ukryte dobro, które czynicie, dziękuję za przebaczenie i pocieszenie, którymi obdarzacie w imię Boga; trzeba zawsze przebaczać, nigdy nie odmawiać przebaczenia,  dziękuję za waszą posługę, która często pełniona jest pośród wielu trudów, nieporozumień i przy znikomym uznaniu. Bracia, niech Duch Boży, który nie zawodzi tych, którzy pokładają w Nim ufność, napełni was pokojem i dopełni to, co w was rozpoczął, abyście byli prorokami Jego namaszczenia i apostołami harmonii.

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[1] Credo nicejsko-konstantynopolitańskie.
[2] Por. Sekwencja do Ducha Świętego.
[3] Św. BAZYLI WIELKI, O Duchu Świętym XVI, 39, przeł. A. Brzóstkowska, Warszawa 1999, s. 138.
[4] Por. ŚW. IRENEUSZ Z LYONU, Adversus haereses, IV, 20, 1.
[5] R. Voillaume, «La seconda chiamata», in: S. Stevan, ed. La Seconda chiamata. Il coraggio della fragilità, Bologna 2018, 15.
[6] Tamże, 24.
[7] Tamże, 16.
[8] Homilie do Księgi Ezechiela, cz. I, X,13-14, przekł. ks. Adam Wilczyński, Tyniec 2019, s. 321.
[9] Św. Bazyli Wielki, O Duchu Świętym, XVI, 38, przeł. A. Brzóstkowska, Warszawa 1999, s.  138.
[10] In Ps, 29, 1.
[11] Por. H. MÜHLEN, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963.
[12] Homilie do Księgi Ezechiela, cz. I, X,13-14, przekł. ks. Adam Wilczyński, Tyniec 2019, s. 251.

 

 

[00555-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

عظة قداسة البابا فرنسيس

في قدّاس الميرون المقدّس

الخميس 6 نيسان/أبريل 2023

بازيليكا القدّيس بطرس

"رُوحُ الرَّبِّ عَلَيَّ" (لوقا 4، 18): بدأت كرازة يسوع بهذه الآية، والكلام الذي سمعناه اليوم بدأ بالآية نفسها (راجع أشعيا 61، 1). إذًا، في البدء يوجد روح الرّبّ.

وفيه أودّ أن أتأمّل معكم اليوم، إخوتي الأعزّاء. لأنّه بدون روح الرّبّ لا توجد حياة مسيحيّة، وبدون مسحته لا توجد قداسة. إنّه العامل الرّئيسي ومن الجميل اليوم، في يوم إنشاء سرّ الكهنوت، أن ندرك أنّه هو في أصل خدمتنا، وفي حياة وحيويّة كلّ راعٍ. في الواقع، الكنيسة الأم المقدّسة تعلّمنا أن نعترف بأنّ الرّوح القدس "يُحيي"[1]، كما أكَّد يسوع عندما قال: "الرُّوحُ هو الَّذي يُحيي" (يوحنا 6، 63). وهو تعلِيم قاله من جديد الرّسول بولس لمَّا كتب أنّ "الحَرْفَ يُميتُ والرُّوحَ يُحْيي" (2 قورنتس 3، 6)، ثمّ تكلّم على "شَريعَةِ الرُّوحِ الَّذي يَهَبُ الحَياةَ في يسوعَ المسيح" (رومة 8، 2). بدونه لن تكون حتّى الكنيسة عروس المسيح الحية، ستكون على الأكثر منظمة دينيّة؛ لن تكون جسد المسيح، بل ستكون هيكلًا مبنيًّا بأيدي بشر. كيف نبني الكنيسة إن لم نبدأ ونؤمن بأنّنا ”هياكل الرّوح القدس“ الذي ”يسكن فينا“ (راجع 1 قورنتس 6، 19؛ 3، 16)؟ لا يمكننا أن نتركه خارج البيت، أو نتوقّف نحن عند بعض العبادات. كلّ يوم، نحن بحاجة لأن نقول: ”تعال، لأنّه بدون قوتك لا شيء في الإنسان“[2].

"رُوحُ الرَّبِّ عَلَيَّ". يمكن لكلّ واحد منّا أن يقول تلك الكلمات. هذا ليس غرورًا، بل هذا واقع، لأنّ كلّ مسيحيّ، وخاصّة كلّ كاهن، يمكنه أن يطبق هذه الكلمات على نفسه: "لأَنَّ الرَّبَّ مَسَحَني" (أشعيا 61، 1). أيّها الإخوة، بدون استحقاق، وبالنّعمة فقط، قَبِلْنا مسحة جعلتنا آباء ورعاة في شعب الله القدوس. لنتوقّف إذًا عند هذا الجانب من الرّوح، وهو: المسحة.

بعد ”المسحة“ الأولى التي حدثت في أحشاء مريم، نزل الرّوح على يسوع في نهر الأردن. بعد ذلك، كما يشرح القدّيس باسيليوس، "كان كلّ عمل [للمسيح] يتمّ بحضور الرّوح القدس"[3]. وبقدرة تلك المسحة، في الواقع، كان يسوع يكرز ويعمل الآيات، وبقوتها "كانَت تَخرُجُ مِنهُ قُوَّةً فتُبرِئُهُم جَميعًا" (راجع لوقا 6، 19). يسوع والرّوح يعملان معًا دائمًا، فهما مثل يدَي الآب[4] الممتدَّتَين نحونا، لتعانقنا وتقيمنا. وبهما خُتِمَت أيدينا، التي مُسِحَت بروح المسيح. نَعم، يا إخوتي، الرّبّ يسوع، لم يختَرْنا ولم يدْعُنا فقط. بل أفاض فينا مسحة روحه، الرّوح نفسه الذي نزل على الرّسل.

لننظر إذًا إليهم، إلى الرّسل. اختارهم يسوع، ودعاهم فتركوا القوارب والشِباكَ والبيت. غيّرت مسحة الكلمة حياتهم. وتبعوا بحماس المعلِّم وبدأوا في الوعظ، وهم مقتنعون بأنّهم سيُتمِّمون فيما بعد أشياء أكبر، إلى أن جاء الفصح. هنا يبدو أنّ كلّ شيء قد توقّف: توصلوا حتّى إلى إنكار المعلِّم والتّخلّي عنه. حاسبوا أنفسهم فأدركوا عدم كفاءتهم وفهموا أنّهم لم يفهموه. هذه الجملة: "إِنِّي لا أَعرِفُ هٰذا الرَّجُلَ" (مرقس 14، 71)، التي رددها بطرس في باحة دار رئيس الكهنة بعد العشاء الأخير، لم تكن فقط دفاعًا عن النّفس متسرعًا ومندفعًا، بل كانت اعترافًا بالجهل الرّوحي: هو والآخرون ربما كانوا يتوقعون حياة ناجحة وراء مسيح قاد الجموع وعمل العجائب، فلم يعترفوا بمعثرة وشك الصّليب، التي حطّمت يقينهم. كان يعرف يسوع أنّهم لن يستطيعوا أن يستمرّوا وحدهم، ولهذا السّبّب وعدهم بالرّوح المُؤَيِّد. وكانت تلك ”المسحة الثّانية“ في يوم العنصرة هي التي غيّرت التّلاميذ، ودفعتهم لرعاية قطيع الله وليس لرعاية أنفسهم. كانت تلك المسحة بالنّار هي التي أخمدت تديّنهم المرتكز على أنفسهم وعلى قدراتهم الخاصّة: بعد أن قبِلوا الرّوح، تلاشت مخاوف بطرس وشكوكه، ويعقوب ويوحنا اللذان أحرقهما الشّوق لأن يبذلا حياتهما، توقَّفا عن السّعي وراء أماكن الشّرف (راجع مرقس 10، 35-45)، ولم يعد الآخرون منغلقين وخائفين في العلية، بل خرجوا وصاروا رسلًا في العالم.

أيّها الإخوة، مسيرة حياتنا الكهنوتيّة والرّسوليّة تشبه مسيرة الرّسل. نحن أيضًا قَبِلْنا مسحة أولى، بدأت بدعوة حبّ خطفت قلبنا. فتركنا المرساة وأقلعنا، ونزلت قوّة الرّوح على هذا الاندفاع العفوي وكرّسَتْنا. ثمّ، بحسب أوقات الله، تأتي لكلّ واحد مرحلة فصحيّة هي لحظة الحقيقة. وهي لحظة أزمة وقد تتخذ أشكالًا مختلفة. الجميع، عاجلًا أم آجلًا، سيختبرون خيبة الأمل والمصاعب والضّعف، ويتلاشى المثال أمام مقتضيّات الواقع، ويحلّ نوع من العادة والرّتابة، وبعض الشّدائد، التي كان من الصّعب تخيلها قبل ذلك، وصار الإخلاص معها يبدو أشدّ صعوبة من ذي قبل. هذه المرحلة تمثّل قمّة حاسمة للذين قَبِلُوا المسحة. يمكننا أن نخرج من الأزمة بشكل سيّئ، متوجهين نحو أنفسنا في الفتور​، ونَجُرَ أنفسنا متعبين إلى نوع من ”الوضع الطّبيعيّ“، تتسلّل فيه ثلاث تجارب خطيرة: تجربة الحلّ الوسط، فنكتفي بما يمكن أن نصنعه؛ وتجربة البدائل، نحاول بها أن ”نجدّد اندفاعنا بالتّوجه إلى أمور أخرى بدل مسحتنا؛ وتجربة الإحباط، فنستمرّ، فنسير غير راضين، في الخمول. وهنا تكمن المخاطرة الكبرى: تظلّ المظاهر سليمة، وننطوي على أنفسنا ونحاول أن نعيش من دون اكتراث. فلا يعود شذا المسحة يعطّر حياتنا، ولا ينشرح القلب بل ينكمش في خيبة الأمل.

لكن هذه الأزمة يمكن أن تصير أيضًا نقطة التّحوّل للكهنوت، "المرحلة الحاسمة في الحياة الرّوحيّة، التي يجب فيها أن نختار الخيار النّهائي بين يسوع والعالم، بين بطولة المحبّة والفتور، بين الصّليب وبعض الرّفاهية، بين القداسة وأمانة تبدو صادقة للالتزام الدّيني"[5]. إنّها اللحظة المباركة التي فيها، مثل التّلاميذ في الفصح، نحن مدعوّون إلى أن نكون "متواضعين بما يكفي للاعتراف بأنّنا قد هُزمنا أمام المسيح المهان والمصلوب، وعلينا أن نقبل ببدء مسيرة جديدة، مسيرة الرّوح والإيمان والمحبّة القويّة وبدون أوهام"[6]. إنّها ”الكايروس“، اللحظة المناسبة التي نكتشف فيها أنّ "كلّ شيء في الحياة ليس فقط التّخلّي عن القارب والشِباك لاتباع يسوع مدة فترة محدودة، بل يجب الذهاب حتّى إلى الجلجلة، ويجب أن نتعلّم الدّرس منها ونقطف الثّمار، والذهاب بمساعدة الرّوح القدس حتّى نهاية الحياة التي يجب أن تنتهي بكمال المحبّة الإلهيّة"[7]. بمساعدة الرّوح القدس، سيحين الوقت، لنا كما كان للرّسل، لـ ”مسحة ثانية“، حيث نقبل الرّوح ليس في حماس أحلامنا، بل في ضعف واقعنا. إنّها مسحة تكشف الحقيقة في العمق، وتسمح للرّوح القدس أن يمسح كلّ ضعف فينا، وتعبٍ، وفقرنا الدّاخليّ. إذّاك سينتشر عطر المسحة من جديد: عطره هو، لا رائحتنا.

السّبيل إلى ذلك هو أن نعترف بحقيقة ضعفنا. وعلى هذا يحثّنا "رُوحُ الحَقّ" (يوحنّا 16، 13)، الذي يحرّكنا لكي ننظر في أعمق أعماقنا، لنسأل أنفسنا: هل يعتمد ما أتمِّمُه على كفاءتي، وعلى الأهمية التي تظهر فيّ، وعلى الإعجاب الذي أطلبه، وعلى التّقدّم في المنصب، وعلى ما يقول رؤسائي أو مُعاونيَّ، وعلى وسائل الرّاحة التي يمكن أن أضمنها لنفسي، أم يعتمد على المسحة التي تُعطّر حياتي؟ أيّها الإخوة، يأتي النُّضج الكهنوتيّ من الرّوح القدس، ويتحقّق عندما يصير هو العامل الرّئيسي في حياتنا. إذَّاك تتغيّر وجهة النّظر في كلّ شيء، حتّى خيبات الأمل والمرارة، لأنّه لم يعد علينا أن نحاول أن نقوم ببعض التحسينات فينا بإصلاح بعض الأمور، بل علينا أن نُسلِّم أنفسنا، دون أن نَحتفظ بأيّ شيء، إلى الذي وَسَمَنا بمسحته ويريد أن يَنزل فينا إلى أعمق أعماقنا. حينئذ سنكتشف أنّ الحياة الرّوحيّة لن تتحلّى بالحرّيّة والفرح عندما نهتمّ بالمحافظة على الظواهر، أو بوضع رقعة في مكان ما، بل عندما نترُك المُبادرة للرّوح القدس، ونُسلّم أنفسنا لمخطّطاته، ونكون مستعدّين للخدمة أينما وكيفما يُطلب منّا: إذ لا ينمو كهنوتنا ببعض الإصلاح، بل بفَيض النّعمة!

إن تركنا روح الحقّ يعمل فينا، سنحافظ على المسحة، لأنّ الأكاذيب التي نميل إلى العيش معها ستخرج إلى النّور. والرّوح القدس، الذي ”يغسل ما هو قذر“، سيقترح علينا، من دون ملل، ”ألّا نُلطِّخ المسحة“، ولا حتّى قليلًا. تتبادر إلى ذِهني تلك الجملة من سِفرِ الجامعة، التي تقول: "الذُّبابُ المَيتُ يُفسِد طيبَ العَطَّار" (10، 1). هذا صحيح، كلّ ازدواجيّة تتسلّل إلى الدّاخل هي خطيرة: يجب ألّا نتساهل معها، بل أن نُخرجها إلى نور الرّوح القدس. لأنّه إن كان "القَلبُ أَخدَعَ كُلِّ شَيء وأَخبَثَه" (إرميا 17، 9)، ويصعب شفاؤه، فإنّ الرّوح القدس، وحده، يشفينا من عدم أماناتنا (راجع هوشع 14، 5). هذا الأمر بالنّسبة لنَا هو كفاح لا يمكن أن نتنازل عنه: في الواقع، إنّه أمرٌ لا غنى عنه، كما كتب القدّيس غريغوريوس الكبير، أنّ "مَن يعلن كلمة الله، عليه أن يختار منذ البداية طريقة الحياة المناسبة لها، لأنّه بعد ذلك، يستقي من حياته نفسها، ويتعلّم ماذا وكيف يقول. [...] لا يدَّعِ أحدٌ أن يقول في العَلَن ما لم يسمعه أوّلًا في داخله"[8]. والرّوح القدس هو المعلّم في الدّاخل الذي علينا أن نصغي إليه، وهو يعلَم أنّه لا يوجد شيء فينا لا يريد أن يطهِّره بمسحته. أيّها الإخوة، لنحافظ على المسحة فينا: لا يكن ابتهالنا إلى الرّوح القدس مجرّد مُمارسة عرضيّة، بل ليكن نَفَسَنا اليوميّ. أنا، الذي كَرّسني الرّوح القدس، مدعوّ إلى أن أغمُرَ نفسي فيهِ، وأن أدعَ نورهُ يدخلُ في ظلماتي لكي أجِد من جديد حقيقة ما أنا عليه. لنترك الرّوح القدس يدفعنا إلى مُحاربة الأكاذيب التي تضطرب فينا، ولنتركه يجدّدنا في السّجود، لأنّنا عندما نسجد للرّبّ يسوع، فهو يفيض روحه القدّوس في قلوبنا.

"روحُ السَّيِّد الرَّبِّ علَيَّ، لأَنَّ الرَّبَّ مَسَحَني، وأَرسَلَني"، وتتابع النّبوءة فتقول: لأحمل البُشرى السّارّة، والتّحرير، والشّفاء والنّعمة (راجع أشعيا 61، 1-2؛ لوقا 4، 18-19): بكلمة واحدة: لأحمل الانسجام حيث لا يوجد انسجام. بعد أن كلّمتكم على المسحة، أودّ أن أقول لكم شيئًا على الانسجام الذي هو ناتج عن المسحة. في الواقع، الرّوح القدس هو انسجام، وأوّلًا في السّماء: أوضح القدّيس باسيليوس أنّ "كلّ ذلك الانسجام فوق السّماوي والذي لا يمكن وصفه في خدمة الله وفي السّمفونيّة المتبادلة للقوى فوق الكونيّة، من المستحيل أن يُحافَظ عليه إلّا بقوّة الرّوح القدس"[9]. وثمَّ على الأرض: إنّه في الواقع في الكنيسة ذلك "الانسجام الإلهيّ والموسيقيّ"[10] الذي يربط بين كلّ شيء. يوجِد تنوّعَ المواهب، ويُعيد تكوينها في الوَحدَة، ويخلق تناغمًا لا يقوم على الشَّبَه المطلق، بل على إبداع المحبّة. هكذا يصنع الانسجام بين الكثيرين. خلال سنوات المجمع الفاتيكانيّ الثّاني، الذي هو موهبة الرّوح القدس، نَشَرَ أحدُ اللاهوتيّين دراسة تكلّم فيها على الرّوح القدس، ليس بصيغة المفرد، بل بصيغة الجمع. ودعا إلى التّفكير فيه على أنّه شخص إلهيّ ليس مفردًا، بل ”بالجّمع“ ، مثل ”نحن في الله“، ونحن في الآب والابن، لأنّه هو صلة الوصل بينهما، وهو في ذاته تناغُم وشركة وانسجام[11]. أتذكّر أنّني عندما قرأت هذا العمل اللاهوتي - أثناء الدراسة – شعرت بالشّك: بدا لي وكأنّه هرطقة، لأنّه في فترة تنشئتنا لم نفهم تمامًا ما هو الرّوح القدس.

خَلْقُ الانسجام، هذا ما يريده الرّوح خصوصًا من خلال الذين أفاض فيهم مسحته. أيّها الإخوة، إنّ بناء الانسجام فيما بيننا ليس فقط الطّريقة الصّالحة حتّى تسير الجماعة الكنسيّة بشكل أفضل، وليس مسألة استراتيجيّة أو مجاملة: بل هو مطلب في حياة الرّوح القدس. نُخطئُ إلى الرّوح القدس الذي هو الشّركة عندما نصير أدوات للانقسام، حتّى لو كان ذلك من باب التلَهِّي. الانقسام هو الدّخول في لعبة العدوّ، الذي لا يأتي في العَلَن، ويحبّ الاشاعات والتّلميحات، ويُؤجّج التّحزّبات والتّكتّلات، ويُثير الحنين إلى الماضي، وعدم الثّقة، والتّشاؤم، والخوف. لنتنبّه، من فضلكم، حتّى لا نلوّث مسحة الرّوح القدس وثوب الكنيسة الأم بالتّفرقة والاستقطاب، وبأيّ نقص في المحبّة والشّركة. لنتذكّر أنّ الرّوح القدس، ”نحن في الله“، يفضّل أسلوب الجماعة: الاستعداد للخدمة أمام الاحتياجات، والطّاعة أمام الأذواق المختلفة، والتّواضع أمام الادعاءات الخاصّة.

ليس الانسجام فضيلة من بين الفضائل الأخرى. إنّه أكثر من ذلك. كتب القدّيس غريغوريوس الكبير: "تَظهرُ قيمة فضيلة الاتفاق، عندما نعلَم أنّ سائر الفضائل كلّها لا قيمة لها من دونها على الإطلاق"[12]. لنسَاعِد بعضنا بعضًا، أيّها الإخوة، في المحافظة على الانسجام، ولا نبدأ بالآخرين، بل ليبدأ كلّ واحدٍ بنفسه، وليسأل نفسه: في كلماتي، وفي تعليقاتي، وفي ما أقوله وأكتبه، هل يوجد خَتمُ الرّوح القدس أم خَتمُ العالم؟ أفكّر أيضًا في لُطف الكاهن: إن وَجد النّاس حتّى فينا أشخاصًا غير راضين وساخطين، وينتقدون ويوجّهون أصابع الاتّهام، أين سيرَون الانسجام؟ كم من النّاس لا يقتربون أو يبتعدون لأنّهم لا يشعرون بأنّه مرغوب فيهم، وأنّهم محبوبون في الكنيسة، بل يشعرون أنّه يُنظر إليهم بعين الرَّيبة والإدانة! باسم الله، لنرحّب ولنغفر، دائمًا! ولنتذكّر أنّه إن كنّا ذوي أطباع فظة ومتَشَكِّية، فإنّنا أوّلًا لا نُنتِج أيّ خَير، ثمّ نُفسد البشارة بالإنجيل، لأنّ ذلك نَقضٌ للشّهادة لله، الذي هو شركة وانسجام. وهذا يُحزنُ كثيرًا الرّوح القدس أوّلًا، وقد قال لنا بولس الرسول: لا تحزنوا روح الله فيكم (راجع أفسس 4، 30).

أيّها الإخوة، أترك لكم هذه الأفكار التي خرجت من قلبي، وأختتم موجّهًا إليكم كلمة بسيطة ومهمّة وهي: شكرًا. شكرًا على شهادتكم وعلى خدمتكم. شكرًا على الخير الكثير المَخفي الذي تصنعونه، وعلى المغفرة والتّعزية اللتين تقدّمونهما باسم الله. شكرًا على خدمتكم، التي تمارسونها غالبًا بجُهود كثيرة، وتقدير قليل. إخوتي، روح الله الذي لا يخيب مَن وضع ثقته فيه، ليملأكم بالسّلام، وليُتمِّم ما بدأه فيكم، حتّى تكونوا أنبياء لمسحته ورسلَ انسجام.

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[1] قانون الإيمان النيقاوي القسطنطينيّ.

 

 

[2] راجع سلسلة عيد العنصرة.

 

 

[3] الروح القدس، 16، 39.

 

 

[4] راجع إيريناوس، ضد الهرطقات، الكتاب الخامس، 20، 1.

 

 

[5] R. Voillaume, «La seconda chiamata», in S. Stevan, ed. La Seconda chiamata. Il coraggio della fragilità, Bologna 2018, 15.

 

 

[6] المرجع نفسه، 24.

 

 

[7] المرجع نفسه، 16.

 

 

[8] عِظَة في سفر حزقيال، الكتاب الأوّل، الفصل العاشر، 13-14.

 

 

[9] الرّوح القدس، الفصل السّادس عشر، 38.

 

 

[10] في المزمور 29، 1.

 

 

[11] Cfr H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963.

 

 

[12] عظة في سفر حزقيال، الكتاب الأوّل، الفصل الثّامن، 8.

 

 

[00555-AR.02] [Testo originale: Italiano]

[B0255-XX.02]