Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Viaggio Apostolico di Papa Francesco in Ungheria (28-30 aprile 2023) – Santa Messa e recita del Regina Caeli nella Piazza Kossuth Lajos, 30.04.2023


Santa Messa e recita del Regina Caeli nella Piazza Kossuth Lajos

Omelia del Santo Padre

Le parole del Papa alla recita del Regina Caeli

Questa mattina, dopo aver lasciato la Nunziatura Apostolica, il Santo Padre Francesco si è trasferito in auto alla Piazza Kossuth Lajos per la celebrazione della Santa Messa.

Al Suo arrivo, dopo aver effettuato il cambio di vettura e dopo alcuni giri in papamobile tra i fedeli convenuti, alle ore 9.30 il Papa ha presieduto la Celebrazione Eucaristica nella IV Domenica di Pasqua.

Nel corso della Santa Messa, dopo la proclamazione del Vangelo, il Santo Padre ha pronunciato l’omelia.

Al termine della Celebrazione, l’Em.mo Card. Péter Erdő, Arcivescovo Metropolita di Esztergom-Budapest, ha rivolto un saluto e un ringraziamento al Santo Padre. Quindi Papa Francesco ha guidato la recita del Regina Caeli con i fedeli presenti. Secondo le autorità locali alla Santa Messa hanno partecipato circa 50.000 persone, di cui più di 30.000 in Piazza Kossuth Lajos.

Dopo la recita del Regina Caeli e la benedizione finale, il Santo Padre è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica di Budapest.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato nel corso della Celebrazione Eucaristica e le sue parole nell’introdurre la preghiera mariana:

Omelia del Santo Padre

Testo in lingua italiana

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Omelia del Santo Padre

Le ultime parole che Gesù pronuncia, nel Vangelo che abbiamo ascoltato, riassumono il senso della sua missione: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Questo fa un bravo pastore: dona la vita per le sue pecore. Così Gesù, come un pastore che va in cerca del suo gregge, è venuto a cercarci mentre eravamo perduti; come un pastore, è venuto a strapparci dalla morte; come un pastore, che conosce una per una le sue pecore e le ama con infinita tenerezza, ci ha fatti entrare nell’ovile del Padre, facendoci diventare suoi figli.

Contempliamo allora l’immagine del buon Pastore, e soffermiamoci su due azioni che, secondo il Vangelo, Egli compie per le sue pecore: dapprima le chiama, poi le conduce fuori.

1. Anzitutto, «chiama le sue pecore» (v. 3). All’inizio della nostra storia di salvezza non ci siamo noi con i nostri meriti, le nostre capacità, le nostre strutture; all’origine c’è la chiamata di Dio, il suo desiderio di raggiungerci, la sua sollecitudine verso ciascuno di noi, l’abbondanza della sua misericordia che vuole salvarci dal peccato e dalla morte, per donarci la vita in abbondanza e la gioia senza fine. Gesù è venuto come buon Pastore dell’umanità per chiamarci e riportarci a casa. Allora noi, facendo memoria grata, possiamo ricordare il suo amore per noi, per noi che eravamo lontani da Lui. Sì, mentre «noi tutti eravamo sperduti come un gregge» e «ognuno di noi seguiva la sua strada» (Is 53,6), Lui si è addossato le nostre iniquità e si è caricato delle nostre colpe, riportandoci nel cuore del Padre. Così abbiamo ascoltato dall’apostolo Pietro nella seconda Lettura: «Eravateerranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (1 Pt 2,25). E, ancora oggi, in ogni situazione della vita, in ciò che portiamo nel cuore, nei nostri smarrimenti, nelle nostre paure, nel senso di sconfitta che a volte ci assale, nella prigione della tristezza che rischia di ingabbiarci, Egli ci chiama. Viene come buon Pastore e ci chiama per nome, per dirci quanto siamo preziosi ai suoi occhi, per curare le nostre ferite e prendere su di sé le nostre debolezze, per raccoglierci in unità nel suo ovile e renderci familiari con il Padre e tra di noi.

Fratelli e sorelle, mentre siamo qui questa mattina, sentiamo la gioia di essere popolo santo di Dio: tutti noi nasciamo dalla sua chiamata; è Lui che ci ha convocati e per questo siamo suo popolo, suo gregge, sua Chiesa. Ci ha radunati qui affinché, pur essendo tra noi diversi e appartenendo a comunità differenti, la grandezza del suo amore ci riunisca tutti in un unico abbraccio. È bello trovarci insieme: i Vescovi e i sacerdoti, i religiosi e i fedeli laici; ed è bello condividere questa gioia insieme alle Delegazioni ecumeniche, ai capi della Comunità ebraica, ai rappresentanti delle Istituzioni civili e del Corpo diplomatico. Questa è cattolicità: tutti noi, chiamati per nome dal buon Pastore, siamo chiamati ad accogliere e diffondere il suo amore, a rendere il suo ovile inclusivo e mai escludente. E, perciò, siamo tutti chiamati a coltivare relazioni di fraternità e di collaborazione, senza dividerci tra noi, senza considerare la nostra comunità come un ambiente riservato, senza farci prendere dalla preoccupazione di difendere ciascuno il proprio spazio, ma aprendoci all’amore vicendevole.

2. Dopo aver chiamato le pecore, il Pastore «le conduce fuori» (Gv 10,3). Prima le ha fatte entrare nell’ovile chiamandole, ora le spinge fuori. Prima veniamo radunati nella famiglia di Dio per essere costituiti suo popolo, poi però siamo inviati nel mondo affinché, con coraggio e senza paura, diventiamo annunciatori della Buona Notizia, testimoni dell’Amore che ci ha rigenerati. Questo movimento – entrare e uscire – possiamo coglierlo da un’altra immagine che Gesù usa: quella della porta. Egli dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (v. 9). Riascoltiamo bene questo: entrerà e uscirà. Da una parte, Gesù è la porta che si è spalancata per farci entrare nella comunione del Padre e sperimentare la sua misericordia; ma, come tutti sanno, una porta aperta serve, oltre che per entrare, anche per uscire dal luogo in cui ci si trova. E allora, dopo averci ricondotti nell’abbraccio di Dio e nell’ovile della Chiesa, Gesù è la porta che ci fa uscire verso il mondo: Egli ci spinge ad andare incontro ai fratelli. E ricordiamolo bene: tutti, nessuno escluso, siamo chiamati a questo, a uscire dalle nostre comodità e ad avere il coraggio di raggiungere ogni periferia che ha bisogno della luce del Vangelo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Fratelli e sorelle, essere “in uscita” significa per ciascuno di noi diventare, come Gesù, una porta aperta. È triste e fa male vedere porte chiuse: le porte chiuse del nostro egoismo verso chi ci cammina accanto ogni giorno; le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi “non è in regola”, chiuse verso chi anela al perdono di Dio. Fratelli e sorelle, per favore, per favore: apriamo le porte! Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno, una porta che permette a tutti di entrare a sperimentare la bellezza dell’amore e del perdono del Signore.

Ripeto questo soprattutto a me stesso, ai fratelli Vescovi e sacerdoti: a noi pastori. Perché il pastore, dice Gesù, non è un brigante o un ladro (cfr Gv 10,8); non approfitta, cioè, del suo ruolo, non opprime il gregge che gli è affidato, non “ruba” lo spazio ai fratelli laici, non esercita un’autorità rigida. Fratelli, incoraggiamoci ad essere porte sempre più aperte: “facilitatori” della grazia di Dio, esperti di vicinanza, disposti a offrire la vita, così come Gesù Cristo, nostro Signore e nostro tutto, ci insegna a braccia aperte dalla cattedra della croce e ci mostra ogni volta sull’altare, Pane vivo spezzato per noi. Lo dico anche ai fratelli e alle sorelle laici, ai catechisti, agli operatori pastorali, a chi ha responsabilità politiche e sociali, a coloro che semplicemente portano avanti la loro vita quotidiana, talvolta con fatica: siate porte aperte! Lasciamo entrare nel cuore il Signore della vita, la sua Parola che consola e guarisce, per poi uscire fuori ed essere noi stessi porte aperte nella società. Essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri, per aiutare l’Ungheria a crescere nella fraternità, via della pace.

Carissimi, Gesù buon Pastore ci chiama per nome e si prende cura di noi con infinita tenerezza. Egli è la porta e chi entra attraverso di Lui ha la vita eterna: Egli dunque è il nostro futuro, un futuro di «vita in abbondanza» (Gv 10,10). Perciò, non scoraggiamoci mai, non lasciamoci mai rubare la gioia e la pace che Lui ci ha donato, non chiudiamoci nei problemi o nell’apatia. Lasciamoci accompagnare dal nostro Pastore: con Lui la nostra vita, le nostre famiglie, le nostre comunità cristiane e l’Ungheria tutta risplendano di vita nuova!

[00688-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Les dernières paroles que Jésus prononce, dans l'Évangile que nous venons d’écouter, résument le sens de sa mission : «Je suis venu pour que les brebis aient la vie, la vie en abondance» (Jn 10, 10). C’est ce que fait un bon pasteur : il donne sa vie pour ses brebis. Ainsi, Jésus, comme un berger qui va à la recherche de son troupeau, est venu nous chercher alors que nous étions perdus ; comme un pasteur, il est venu nous arracher à la mort ; comme un pasteur, qui connaît ses brebis une par une et qui les aime avec une infinie tendresse, il nous a fait entrer dans l’enclos du Père, en faisant de nous ses enfants.

Contemplons donc l’image du Bon Pasteur et arrêtons-nous sur deux actions que, selon l'Évangile, il accomplit pour ses brebis : d’abord il les appelle, ensuite il les fait sortir.

1. D’abord, «il appelle ses brebis» (v. 3). Au début de l’histoire de notre salut, ce n’est pas nous avec nos mérites, nos capacités, nos structures ; à l’origine, il y a l’appel de Dieu, son désir de nous rejoindre, sa sollicitude pour chacun d’entre nous, l’abondance de sa miséricorde qui veut nous sauver du péché et de la mort, pour nous donner la vie en abondance et la joie sans fin. Jésus est venu comme bon Pasteur de l’humanité pour nous appeler et nous ramener à la maison. Nous pouvons alors nous rappeler avec gratitude son amour pour nous, pour nous qui étions loin de lui. Oui, alors que «nous étions tous errants comme des brebis» et que «chacun suivait son propre chemin» (Is 53, 6), Il a pris sur lui nos iniquités et s’est chargé de nos péchés, nous ramenant au cœur du Père. C’est ainsi que nous avons entendu de l’apôtre Pierre dans la seconde lecture : «Vous étiez errants comme des brebis; mais à présent vous êtes retournés vers votre berger, le gardien de vos âmes» (1 P 2, 25). Et aujourd’hui encore, dans toutes les situations de la vie, dans ce que nous portons dans notre cœur, dans nos égarements, dans nos peurs, dans le sentiment de défaite qui nous assaille parfois, dans la prison de la tristesse qui menace de nous enfermer, Il nous appelle. Il vient comme bon Pasteur et nous appelle par notre nom, pour nous dire combien nous sommes précieux à ses yeux, pour guérir nos blessures et prendre sur lui nos faiblesses, pour nous rassembler dans l’unité dans son enclos et fait de nous une famille, entre nous et avec le Père.

Frères et sœurs, alors que nous sommes ici ce matin, nous ressentons la joie d’être le peuple saint de Dieu : nous sommes tous nés de son appel ; c’est lui qui nous a convoqués et c’est pourquoi nous sommes son peuple, son troupeau, son Église. Il nous a rassemblés ici pour que, bien que différents les uns des autres et appartenant à des communautés différentes, la grandeur de son amour nous réunisse tous dans une même étreinte. Il est beau de nous retrouver ensemble : les évêques et les prêtres, les religieux et les fidèles laïcs ; et il est beau de partager cette joie avec les Délégations œcuméniques, les responsables de la Communauté juive, les représentants des Institutions civiles et le Corps diplomatique. C’est cela la catholicité : nous tous, appelés par notre nom par le bon Pasteur, nous sommes appelés à accueillir et à répandre son amour, à faire en sorte que son enclos soit inclusif et jamais exclusif. Nous sommes donc tous appelés à cultiver des relations de fraternité et de collaboration, sans nous diviser, sans considérer notre communauté comme un milieu réservé, sans nous laisser prendre par le souci de défendre chacun son espace, mais en nous ouvrant à l’amour mutuel.

2. Après avoir appelé les brebis, le Pasteur «les fait sortir» (Jn 10, 3). Il les a d’abord fait entrer dans la bergerie en les appelant, maintenant il les pousse dehors. Nous sommes d’abord rassemblés dans la famille de Dieu pour former son peuple, mais nous sommes ensuite envoyés dans le monde pour devenir, avec courage et sans crainte, des hérauts de la Bonne Nouvelle, des témoins de l’Amour qui nous a régénérés. Ce mouvement - entrer et sortir - nous pouvons le saisir à partir d’une autre image que Jésus utilise : celle de la porte. Il dit : «Moi, je suis la porte. Si quelqu’un entre en passant par moi, il sera sauvé ; il pourra entrer ; il pourra sortir et trouver un pâturage» (v. 9). Entendons bien de nouveau : il entrera et il sortira. D’une part, Jésus est la porte qui s’est largement ouverte pour que nous entrions dans la communion du Père et que nous fassions l’expérience de sa miséricorde ; mais, comme chacun le sait, une porte ouverte ne sert pas seulement à entrer, mais aussi à sortir de l’endroit où l’on se trouve. Ainsi, après nous avoir ramenés à l’étreinte de Dieu et dans le bercail de l’Église, Jésus est la porte qui nous fait sortir vers le monde : il nous pousse à aller à la rencontre de nos frères. Et rappelons-nous le bien: tous, sans exception, nous sommes appelés à cela, à sortir de nos conforts et à avoir le courage de rejoindre les périphéries qui ont besoin de la lumière de l’Évangile (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 20).

Frères et sœurs, être “en sortie” signifie pour chacun devenir, comme Jésus, une porte ouverte. Il est triste et douloureux de voir des portes fermées : les portes fermées de notre égoïsme envers ceux qui marchent chaque jour à nos côtés ; les portes fermées de notre individualisme dans une société qui risque de s’atrophier dans la solitude ; les portes fermées de notre indifférence à ceux qui sont dans la souffrance et la pauvreté ; les portes fermées à ceux qui sont étrangers, différents, migrants, pauvres. Et même les portes fermées de nos communautés ecclésiales : fermées entre nous, fermées au monde, fermées à ceux qui “ne sont pas en règle”, fermées à ceux qui aspirent au pardon de Dieu. Frères et sœurs, s’il vous plaît, s’il vous plaît : ouvrons les portes ! Essayons d’être nous aussi – avec nos paroles, nos gestes, nos activités quotidiennes – comme Jésus : une porte ouverte, une porte qui n’est jamais claquée au nez de personne, une porte qui permet à chacun d’entrer et de faire l’expérience de la beauté de l’amour et du pardon du Seigneur.

Je le répète en particulier à moi-même, à mes frères évêques et prêtres : à nous, pasteurs. Parce que le pasteur, dit Jésus, n’est ni un brigand ni un voleur (cf. Jn 10, 8); Il ne profite pas de son rôle, il n’opprime pas le troupeau qui lui est confié, il ne “vole” pas l’espace à ses frères laïcs, il n’exerce pas une autorité rigide. Frères, encourageons-nous à être des portes toujours plus ouvertes : des “facilitateurs” de la grâce de Dieu, experts en proximité, disposés à offrir notre vie, tout comme Jésus-Christ, notre Seigneur et notre tout, nous l’enseigne à bras ouverts depuis la cathèdre de la croix, et nous le montre à chaque fois sur l’autel, Pain vivant rompu pour nous. Je le dis aussi aux frères et aux sœurs laïcs, aux catéchistes, aux agents pastoraux, à ceux qui exercent des responsabilités politiques et sociales, à ceux qui vivent simplement leur vie quotidienne, parfois avec difficulté : soyez des portes ouvertes! Laissons le Seigneur de la vie entrer dans nos cœurs, sa Parole qui console et guérit, pour sortir ensuite et être nous-mêmes des portes ouvertes dans la société. Êtres ouverts et inclusifs les uns envers les autres, pour aider la Hongrie à grandir dans la fraternité, chemin de la paix.

Bien-aimés, Jésus Bon Pasteur nous appelle par notre nom et prend soin de nous avec une infinie tendresse. Il est la porte et celui qui entre par Lui a la vie éternelle : Il est donc notre avenir, un avenir de «vie en abondance» (Jn 10, 10). Ne nous décourageons donc jamais, ne nous laissons pas voler la joie et la paix qu’il nous a données, ne nous enfermons pas dans les problèmes ou dans l’apathie. Laissons-nous être accompagnés par notre Pasteur: avec Lui notre vie, que nos familles, nos communautés chrétiennes et toute la Hongrie resplendissent de vie nouvelle!

[00688-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Jesus’ final words in the Gospel we have just heard sum up the meaning of his mission: “I came that they may have life and have it abundantly” (Jn 10:10). That is what a good shepherd does: he gives his life for his sheep. Jesus, like a shepherd who goes in search of his flock, came to find us when we were lost. Like a shepherd, he came to snatch us from death. Like a shepherd who knows each of his sheep and loves them with infinite tenderness, he brought us back to the Father’s fold and made us his children.

Let us reflect, then, on the image of the Good Shepherd and on two specific things that, according to the Gospel, he does for the sheep. He calls them by name, and then he leads them out.

First, “he calls his sheep by name” (v. 3). The history of salvation does not begin with us, with our merits, our abilities and our structures. It begins with the call of God, with his desire to come to us, with his concern for each one of us, with the abundance of his mercy. The Lord wants to save us from sin and death, to give us life in abundance and joy without end. Jesus came as the Good Shepherd of humanity, to call us and bring us home. With gratitude, all of us can think back on the love he showed us when we had wandered far from him. When we, like sheep, had “gone astray” and each one of us “turned to his own way” (Is 53:6). Jesus took upon himself our iniquities and bore our sins, leading us back to the Father’s heart. This is what we heard from the apostle Peter in today’s second reading: “You were going astray like sheep, but now you have returned to the shepherd and guardian of your souls” (1 Pet 2:25). Today too, Jesus calls us, in every situation, at all those times when we feel confused and fearful, overwhelmed and burdened by sorrow and self-pity. He comes to us as the Good Shepherd, he calls us by name and tells us how precious we are in his eyes. He heals our wounds, takes upon himself our frailties and gathers us into the unity of his fold, as children of the Father and brothers and sisters of one another.

And so, brothers and sisters, this morning, in this place, we sense the joy of our being God’s holy people. All of us were born of his call. He called us together, and so we are his people, his flock, his Church. Though we are diverse and come from different communities, the Lord has brought us together, so that his immense love can enfold us in one embrace. It is good for us to be together: bishops and priests, religious and lay faithful. And it is beautiful to share this joy of ours with the ecumenical delegations, the leaders of the Jewish community, the representatives of civil institutions and the diplomatic corps. This is the meaning of catholicity: all of us, called by name by the Good Shepherd, are summoned to receive and spread his love, to make his fold inclusive and never to exclude others. It follows that all of us are called to cultivate relationships of fraternity and cooperation, avoiding divisions, not retreating into our own community, not concerned to stake out our individual territory, but rather opening our hearts to mutual love.

After calling his sheep, the Shepherd “leads them out” (Jn 10:3). First, he brought them into the fold, calling them by name; now he sends them out. We too were first gathered into God’s family to become his people; then we too were sent out into the world so that, courageously and fearlessly, we might become heralds of the Good News, witnesses of the love that has given us new birth. We can appreciate this process of “entering” and “leaving” from yet another image that Jesus uses. He says, “I am the door; if anyone enters through me, he will be saved, and will go in and out and find pasture” (v. 9). Let us listen to those words again: “he will go in and out”. On the one hand, Jesus is the wide open door that enables us to enter into the Father’s fellowship and experience his mercy. Yet, as we all know, open doors are not only for entering, but also for leaving. After bringing us back into God’s embrace and into the fold of the Church, Jesus is the door that leads us back into the world. He urges us to go forth to encounter our brothers and sisters. Let us never forget that all of us, without exception, are called to this; we are called to step out of our comfort zones and find the courage to reach out to all those peripheries that need the light of the Gospel (cf. Evangelii Gaudium, 20).

Brothers and sisters, “going forth” means that we, like Jesus, must become open doors. How sad and painful it is to see closed doors. The closed doors of our selfishness with regard to others; the closed doors of our individualism amid a society of growing isolation; the closed doors of our indifference towards the underprivileged and those who suffer; the doors we close towards those who are foreign or unlike us, towards migrants or the poor. Closed doors also within our ecclesial communities: doors closed to other people, closed to the world, closed to those who are “irregular”, closed to those who long for God’s forgiveness. Please, brothers and sisters, let us open those doors! Let us try to be – in our words, deeds and daily activities – like Jesus, an open door: a door that is never shut in anyone’s face, a door that enables everyone to enter and experience the beauty of the Lord’s love and forgiveness.

I repeat this especially to myself and to my brother bishops and priests: to those of us who are shepherds. Jesus tells us that a good shepherd is neither a robber nor a thief (cf. Jn 10:8). In other words, he does not take advantage of his role; he does not lord it over the flock entrusted to his care; he does not occupy spaces that belong to his lay brothers and sisters; he does not exercise inflexible authority. Brothers, let us encourage one another to be increasingly open doors: “facilitators” of God’s grace, masters of closeness; let us be ready to offer our lives, even as Christ, our Lord and our all, teaches us with open arms from the throne of the cross and shows us daily as the living Bread broken for us on the altar. I say this also to our lay brothers and sisters, to catechists and pastoral workers, to those with political and social responsibilities, and to those who simply go about their daily lives, which at times are not easy. Be open doors! Let the Lord of life enter our hearts, with his words of consolation and healing, so that we can then go forth as open doors within society. Be open and inclusive, then, and in this way, help Hungary to grow in fraternity, which is the path of peace.

Dear brothers and sisters, Jesus the Good Shepherd calls us by name and cares for us with infinitely tender love. He is the door, and all who enter through him have eternal life. He is our future, a future of “life in abundance” (Jn 10:10). Let us never be discouraged. Let us never be robbed of the joy and peace he has given us. Let us never withdraw into our own problems or turn away from others in apathy. May the Good Shepherd accompany us always: with him, our lives, our families, our Christian communities and all of Hungary will flourish with new and abundant life!

[00688-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Die letzten Worte, die Jesus im eben gehörten Evangelium spricht, fassen die Bedeutung seiner Sendung zusammen: »Ich bin gekommen, damit sie das Leben haben und es in Fülle haben« (Joh 10,10). Das ist es, was ein guter Hirte tut: Er gibt sein Leben hin für seine Schafe. So ist Jesus wie ein Hirte auf der Suche nach seiner Herde gekommen, um uns zu suchen, da wir verloren waren; wie ein Hirte ist er gekommen, um uns dem Tod zu entreißen; wie ein Hirte, der jedes einzelne seiner Schafe kennt und sie mit unendlicher Zärtlichkeit liebt, führte er uns in den Schafstall des Vaters und machte uns zu seinen Kindern.

Betrachten wir also das Bild des Guten Hirten und verweilen wir bei zwei Dingen, die er nach den Worten des Evangeliums für seine Schafe tut: Zuerst ruft er sie, dann führt er sie hinaus.

1. Zunächst einmal ruft er seine Schafe (vgl. V. 3). Am Anfang unserer Heilsgeschichte stehen nicht wir mit unseren Verdiensten, unseren Fähigkeiten, unseren Strukturen; am Anfang steht Gottes Ruf, sein Wunsch, uns zu erreichen, seine Sorge um jeden einzelnen von uns, die Fülle seiner Barmherzigkeit, die uns von Sünde und Tod erlösen will, um uns Leben in Fülle und unendliche Freude zu schenken. Jesus ist als der gute Hirte der Menschheit gekommen, um uns zu rufen und wieder nach Hause zu führen. So können wir uns dankbar an seine Liebe zu uns erinnern, zu uns, die wir fern von ihm waren. Ja, während wir alle verirrt waren wie Schafe und jeder für sich seinen Weg ging (vgl. Jes 53,6), nahm er unsere Bosheit und unsere Schuld auf sich und brachte uns zurück ins Herz des Vaters. So haben wir es vom Apostel Petrus in der zweiten Lesung gehört: »Ihr hattet euch verirrt wie Schafe, jetzt aber habt ihr euch hingewandt zum Hirten und Hüter eurer Seelen« (1 Petr 2,25). Und auch heute noch ruft er uns in jeder Lebenssituation, bei allem, was wir in unseren Herzen tragen, in unseren Verwirrungen, in unseren Ängsten, im Gefühl der Niederlage, das uns manchmal überkommt, im Gefängnis der Traurigkeit, das uns gefangen zu halten droht. Er kommt als der Gute Hirte und ruft uns beim Namen, um uns zu sagen, wie wertvoll wir in seinen Augen sind, um unsere Wunden zu heilen und unsere Schwächen auf sich zu nehmen, um uns in Einheit in seinem Schafstall zu sammeln und uns mit dem Vater und miteinander vertraut zu machen.

Brüder und Schwestern, wo wir heute Morgen hier sind, spüren wir die Freude, Gottes heiliges Volk zu sein: Wir alle haben unseren Ursprung in seinem Ruf; er ist es, der uns zusammengerufen hat, und deshalb sind wir sein Volk, seine Herde, seine Kirche. Er hat uns hier versammelt, damit die Größe seiner Liebe uns alle in einer einzigen Umarmung zusammenführt, auch wenn wir uns voneinander unterscheiden und zu verschiedenen Gemeinschaften gehören. Es ist schön, dass wir hier zusammen sind: die Bischöfe und die Priester, die Ordensleute und die Laien. Und es ist schön, diese Freude zu teilen: mit den ökumenischen Delegationen, den Leitern der jüdischen Gemeinschaft, den Vertretern der zivilen Institutionen und dem diplomatischen Korps. Das ist Katholizität: Wir alle, die wir vom Guten Hirten beim Namen gerufen wurden, sind dazu berufen, seine Liebe anzunehmen und weiterzugeben und dafür zu sorgen, dass in seinem Stall alle einen Platz haben und niemand außen vor bleibt. Und deshalb sind wir alle aufgerufen, Beziehungen der Geschwisterlichkeit und der Zusammenarbeit zu pflegen, ohne uns zu entzweien, ohne unsere Gemeinschaft als geschlossene Gesellschaft zu betrachten, ohne uns von der Sorge leiten zu lassen, den je eigenen Raum zu verteidigen, sondern uns der gegenseitigen Liebe zu öffnen.

2. Nachdem der Hirte die Schafe gerufen hat, führt er sie hinaus (vgl. Joh 10,3). Zuerst hat er sie gerufen und in den Stall gebracht, jetzt treibt er sie hinaus. Zuerst werden wir in Gottes Familie zusammengerufen, so dass wir zu seinem Volk werden, dann jedoch werden wir in die Welt gesandt, damit wir mutig und ohne Angst zu Verkündigern der Guten Nachricht werden, zu Zeugen der Liebe, die uns erneuert hat. Diese Bewegung – das Ein- und Ausgehen – können wir anhand eines anderen Bildes begreifen, das Jesus verwendet: das der Tür. Er sagt: »Ich bin die Tür; wer durch mich hineingeht, wird gerettet werden; er wird ein- und ausgehen und Weide finden« (V. 9). Lassen wir uns das noch einmal klar gesagt sein: Er wird ein- und ausgehen. Einerseits ist Jesus die Tür, die sich weit aufgetan hat, um uns in die Gemeinschaft des Vaters eintreten und seine Barmherzigkeit erfahren zu lassen; aber wie jeder weiß, ist eine offene Tür nicht nur zum Eintreten da, sondern auch dazu, den Ort zu verlassen, an dem man sich befindet. Und so ist Jesus, der uns in die Umarmung Gottes und in den Schafstall der Kirche zurückgeführt hat, die Tür, die uns in die Welt hinausgehen lässt: Er drängt uns, unseren Brüdern und Schwestern entgegenzugehen. Und denken wir immer daran: Wir alle, keiner ausgeschlossen, sind dazu aufgerufen, unsere Komfortzone zu verlassen und den Mut zu haben, uns zu allen Randgebieten zu begeben, die das Licht des Evangeliums brauchen (vgl. Apostolisches Schreiben Evangelii gaudium, 20).

Brüder und Schwestern, „ausgehen“ bedeutet für jeden von uns, so zu werden wie Jesus, eine offene Tür. Es ist traurig und tut weh, verschlossene Türen zu sehen: die verschlossenen Türen unseres Egoismus gegenüber denen, die jeden Tag neben uns hergehen; die verschlossenen Türen unseres Individualismus in einer Gesellschaft, die in Einsamkeit zu verkümmern droht; die verschlossenen Türen unserer Gleichgültigkeit gegenüber denen, die in Leid und in Armut leben; die verschlossenen Türen gegenüber den Fremden, den Anderen, den Migranten, den Armen. Und sogar die verschlossenen Türen unserer kirchlichen Gemeinschaften: Verschlossen gegenüber den jeweils anderen Gemeinschaften, verschlossen gegenüber der Welt, verschlossen gegenüber denen, die „aus der Reihe tanzen“, verschlossen gegenüber denen, die sich nach der Vergebung Gottes sehnen. Brüder und Schwestern, bitte, bitte: Öffnen wir die Türen! Versuchen auch wir, wie Jesus zu sein – in unseren Worten, Gesten und täglichen Aktivitäten: eine offene Tür, eine Tür, die niemandem vor der Nase zugeschlagen wird, eine Tür, durch die jeder eintreten und die Schönheit der Liebe und Vergebung des Herrn erfahren kann.

Ich sage das vor allem immer wieder mir selbst, meinen Brüdern, den Bischöfen und Priestern: uns Hirten. Denn der Hirte, so sagt Jesus, ist weder ein Räuber noch ein Dieb (vgl. Joh 10,8); das heißt, er nutzt seine Rolle nicht aus, er unterdrückt die ihm anvertraute Herde nicht, er „raubt“ seinen Brüdern und Schwestern, die Laien sind, nicht ihren Bereich, er übt kein rigides Regiment. Brüder, ermutigen wir einander, immer offenere Türen zu sein: „Förderer“ der Gnade Gottes, Experten in Sachen Nähe, bereit, unser Leben hinzugeben, so wie Jesus Christus, unser Herr und unser Ein und Alles, es uns mit offenen Armen von der Kathedra des Kreuzes her lehrt und wie er es uns jedes Mal auf dem Altar zeigt, als das lebendige Brot, das für uns gebrochen wurde. Ich sage dies auch unseren Brüdern und Schwestern, die Laien sind, den Katecheten, den pastoralen Mitarbeitern, denjenigen mit politischer und sozialer Verantwortung, denjenigen, die einfach nur ihrem täglichen Leben nachgehen, manchmal unter Schwierigkeiten: Seid offene Türen! Lassen wir den Herrn des Lebens in unsere Herzen eintreten, sein Wort, das tröstet und heilt, um dann hinauszugehen und selbst offene Türen in der Gesellschaft zu sein. Füreinander offen und integrierend sein, um Ungarn zu helfen, in der Geschwisterlichkeit zu wachsen, die der Weg des Friedens ist.

Meine Lieben, Jesus, der Gute Hirte, ruft uns beim Namen und sorgt mit unendlicher Zärtlichkeit für uns. Er ist die Tür und wer durch ihn eintritt, hat das ewige Leben: Er ist also unsere Zukunft, eine Zukunft des Lebens in Fülle (vgl. Joh 10,10). Lassen wir uns daher niemals entmutigen, lassen wir uns niemals die Freude und den Frieden rauben, die er uns geschenkt hat, verschließen wir uns nicht in unseren Problemen oder unserer Teilnahmslosigkeit. Lassen wir uns von unserem Hirten begleiten: Mit ihm mögen unser Leben, unsere Familien, unsere christlichen Gemeinschaften und ganz Ungarn in neuem Glanz erstrahlen!

[00688-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Las últimas palabras que Jesús pronuncia, en el Evangelio que hemos escuchado, resumen el sentido de su misión: «Yo he venido para que tengan Vida, y la tengan en abundancia» (Jn 10,10). Esto es lo que hace un buen pastor: da la vida por sus ovejas. Así Jesús, como un pastor que va en busca de su rebaño, vino a buscarnos cuando estábamos perdidos; como un pastor, vino a arrancarnos de la muerte; como un pastor, que conoce a cada una de sus ovejas y las ama con ternura infinita, nos ha hecho entrar en el redil del Padre, haciéndonos hijos suyos.

Contemplemos entonces la imagen del buen Pastor, y detengámonos en dos acciones que, como narra el Evangelio, Él realiza por sus ovejas: primero las llama, después las hace salir.

1. En primer lugar, “llama a sus ovejas” (cf. v. 3). Al comienzo de nuestra historia de salvación no estamos nosotros con nuestros méritos, nuestras capacidades, nuestras estructuras; en el origen está la llamada de Dios, su deseo de alcanzarnos, su preocupación por cada uno de nosotros, la abundancia de su misericordia que quiere salvarnos del pecado y de la muerte, para darnos la vida en abundancia y la alegría sin fin. Jesús vino como buen Pastor de la humanidad para llamarnos y llevarnos a casa. Nosotros entonces, con memoria agradecida, podemos recordar su amor por nosotros; por nosotros que estábamos alejados de Él. Sí, mientras «todos andábamos errantes como ovejas» y «siguiendo cada uno su propio camino» (Is 53,6), Él soportó nuestras iniquidades y cargó con nuestras culpas, conduciéndonos nuevamente al corazón del Padre. Así lo hemos escuchado del apóstol Pedro en la segunda Lectura: «Porque antes andaban como ovejas perdidas, pero ahora han vuelto al Pastor y Guardián de ustedes» (1 P 2,25). Y, aún hoy, en cada situación de la vida, en aquello que llevamos en el corazón, en nuestros extravíos, en nuestros miedos, en el sentido de derrota que a veces nos asalta, en la prisión de la tristeza que amenaza con encerrarnos, Él nos llama. Viene como buen Pastor y nos llama por nuestro nombre, para decirnos lo valiosos que somos a sus ojos, para curar nuestras heridas y cargar sobre sí nuestras debilidades, para reunirnos en su grey y hacernos familia con el Padre y entre nosotros.

Hermanos y hermanas, mientras estamos aquí esta mañana, sentimos la alegría de ser pueblo santo de Dios. Todos nosotros nacemos de su llamada; Él es quien nos ha convocado y por eso somos su pueblo, su rebaño, su Iglesia. Nos ha reunido aquí para que, aun siendo diferentes entre nosotros y perteneciendo a comunidades distintas, la grandeza de su amor nos congregue a todos en un único abrazo. Es hermoso estar juntos: los obispos y los sacerdotes, los religiosos y los fieles laicos; y es hermoso compartir esta alegría junto con las Delegaciones ecuménicas, los jefes de la Comunidad judía, los representantes de las Instituciones civiles y del Cuerpo diplomático. Esto es catolicidad: todos nosotros, llamados por nuestro nombre por el buen Pastor, estamos invitados a acoger y difundir su amor, a hacer que su redil sea inclusivo y nunca excluyente. Y, por eso, todos estamos llamados a cultivar relaciones de fraternidad y colaboración, sin dividirnos entre nosotros, sin considerar nuestra comunidad como un ambiente reservado, sin dejarnos arrastrar por la preocupación de defender cada uno el propio espacio, sino abriéndonos al amor mutuo.

2. Después de haber llamado a las ovejas, el Pastor «las hace salir» (Jn 10,3). Primero, llamándolas, las hizo entrar en el rebaño, luego las conduce hacia afuera. Primero somos reunidos en la familia de Dios para ser constituidos su pueblo, pero después somos enviados al mundo para que, con valentía y sin miedo, seamos anunciadores de la Buena Noticia, testigos del amor que nos ha regenerado. Este movimiento —entrar y salir— podemos comprenderlo con otra imagen que usa Jesús; la de la puerta. Él dice: «Yo soy la puerta. El que entra por mí se salvará; podrá entrar y salir, y encontrará su alimento» (v. 9). Volvamos a escuchar bien esto: entrará y saldrá. Por una parte, Jesús es la puerta que se abre de par en par para hacernos entrar en la comunión del Padre y experimentar su misericordia; pero, como todos saben, una puerta abierta sirve tanto para entrar como para salir del lugar en el que se encuentra. Y entonces Jesús, después de habernos conducido nuevamente al abrazo de Dios y al redil de la Iglesia, es la puerta que nos hace salir al mundo. Él nos impulsa a ir al encuentro de los hermanos. Y recordémoslo bien: todos, sin excepción, estamos llamados a esto, a salir de nuestras comodidades y tener la valentía de llegar a todas las periferias que necesitan la luz del Evangelio (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Hermanos y hermanas, estar “en salida” significa para cada uno de nosotros convertirse, como Jesús, en una puerta abierta. Es triste y hace daño ver puertas cerradas: las puertas cerradas de nuestro egoísmo hacia quien camina con nosotros cada día, las puertas cerradas de nuestro individualismo en una sociedad que corre el riesgo de atrofiarse en la soledad; las puertas cerradas de nuestra indiferencia ante quien está sumido en el sufrimiento y en la pobreza; las puertas cerradas al extranjero, al que es diferente, al migrante, al pobre. E incluso las puertas cerradas de nuestras comunidades eclesiales: cerradas entre nosotros, cerradas al mundo, cerradas al que “no está en regla”, cerradas al que anhela al perdón de Dios. Hermanos y hermanas, por favor, por favor, ¡abramos las puertas! También nosotros intentemos —con las palabras, los gestos, las actividades cotidianas— ser como Jesús, una puerta abierta, una puerta que nunca se le cierra en la cara a nadie, una puerta que permite entrar a experimentar la belleza del amor y del perdón del Señor.

Repito esto sobre todo a mí mismo, a los hermanos obispos y sacerdotes; a nosotros pastores. Porque el pastor, dice Jesús, no es un asaltante o un ladrón (cf. Jn 10,8); no se aprovecha de su cargo, es decir, no oprime al rebaño que le ha sido confiado; no “roba” el espacio de los hermanos laicos; no ejercita una autoridad rígida. Hermanos, animémonos a ser puertas cada vez más abiertas; “facilitadores” de la gracia de Dios, expertos en cercanía, dispuestos a ofrecer la vida, así como Jesucristo, nuestro Señor y nuestro todo, nos lo enseña con los brazos abiertos desde la cátedra de la cruz y nos lo muestra cada vez en el altar, Pan vivo que se parte por nosotros. Lo digo también a los hermanos y a las hermanas laicos, a los catequistas, a los agentes pastorales, a quienes tienen responsabilidades políticas y sociales, a aquellos que sencillamente llevan adelante su vida cotidiana, a veces con dificultad: sean puertas abiertas. Dejemos entrar en el corazón al Señor de la vida, su Palabra que consuela y sana, para luego salir y ser, nosotros mismos, puertas abiertas en la sociedad. Ser abiertos e inclusivos unos con otros, para ayudar a Hungría a crecer en la fraternidad, camino de la paz.

Queridos hermanos y hermanas, Jesús buen Pastor nos llama por nuestro nombre y nos cuida con ternura infinita. Él es la puerta y quien entra por Él tiene la vida eterna. Él es nuestro futuro, un futuro de «Vida en abundancia» (Jn 10,10). Por eso, no nos desanimemos nunca, no nos dejemos robar nunca la alegría y la paz que Él nos ha dado; no nos encerremos en los problemas o en la apatía. Dejémonos acompañar por nuestro Pastor; con Él, nuestra vida, nuestras familias, nuestras comunidades cristianas y toda Hungría resplandezcan de vida nueva.

[00688-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

As últimas palavras que Jesus pronuncia, no Evangelho que ouvimos, resumem o sentido da sua missão: «Eu vim para que tenham vida e a tenham em abundância» (Jo 10, 10). É isto o que faz um bom pastor: dá a vida pelas suas ovelhas. Assim Jesus, como um pastor que vai à procura das ovelhas do seu rebanho, veio procurar-nos quando estávamos perdidos; como um pastor, veio arrebatar-nos da morte; como um pastor, que conhece as suas ovelhas uma por uma e as ama com infinita ternura, fez-nos entrar no redil do Pai, tornando-nos seus filhos.

Contemplemos, pois, a imagem do bom Pastor, detendo-nos em duas ações que Ele, segundo o Evangelho, realiza pelas suas ovelhas: primeiro chama-as, depois fá-las sair.

1. Em primeiro lugar, «chama as suas ovelhas» (10, 3). No início da nossa história de salvação, não estamos nós com os nossos méritos, as nossas capacidades, as nossas estruturas; na origem, está a chamada de Deus, o seu desejo de nos alcançar, a sua solicitude por cada um de nós, a abundância da sua misericórdia que nos quer salvar do pecado e da morte, para nos dar a vida em abundância e a alegria sem fim. Jesus veio como bom Pastor da humanidade, a fim de nos chamar e levar para casa. Assim nós, com memória agradecida, podemos recordar o seu amor por nós; por nós que estávamos longe d’Ele. Sim, enquanto «todos nós andávamos desgarrados como ovelhas perdidas, cada um seguindo o seu caminho» (Is 53, 6), Ele assumiu as nossas iniquidades e carregou as nossas culpas, trazendo-nos de volta ao coração do Pai. Assim o ouvimos, do apóstolo Pedro, na segunda Leitura: «Éreis como ovelhas desgarradas, mas agora voltastes ao Pastor e Guarda das vossas almas» (1 Pd 2, 25). E ainda hoje, em cada situação da vida, naquilo que trazemos no coração, nos nossos extravios, nos nossos medos, no sentimento de derrota que às vezes nos assalta, na prisão da tristeza que ameaça enjaular-nos, Ele chama-nos. Vem como bom Pastor e chama-nos por nome, para nos dizer quanto somos preciosos a seus olhos, para curar as nossas feridas e tomar sobre Si as nossas fraquezas, para nos reunir em unidade no seu rebanho e tornar-nos familiares do Pai e uns dos outros.

Irmãos e irmãs, reunidos aqui esta manhã, sintamos a alegria de ser povo santo de Deus: todos nascemos da sua chamada; foi Ele que nos convocou e, por isso, somos o seu povo, o seu rebanho, a sua Igreja. Reuniu-nos aqui para que, embora sendo diversos uns dos outros e pertencendo a comunidades diferentes, a grandeza do seu amor nos reúna a todos num único abraço. É bom estarmos juntos: bispos e sacerdotes, religiosos e fiéis leigos; e é bom partilhar esta alegria juntamente com as Delegações ecuménicas, os chefes da Comunidade judaica, os representantes das Instituições civis e do Corpo Diplomático. Isto é catolicidade: todos nós, chamados por nome pelo bom Pastor, somos chamados a acolher e espalhar o seu amor, a tornar o seu rebanho inclusivo, e nunca excludente. E, por conseguinte, somos todos chamados a cultivar relações de fraternidade e colaboração, sem nos dividirmos entre nós, sem considerar a nossa comunidade como um ambiente reservado, sem nos deixarmos tomar pela preocupação de defender cada um o próprio espaço, mas abrindo-nos ao amor recíproco.

2. Depois de ter chamado as ovelhas, o Pastor «fá-las sair» (Jo 10, 3). Primeiro fá-las entrar no redil chamando-as, agora impele-as para fora. Primeiro somos reunidos na família de Deus para sermos constituídos seu povo, mas depois somos enviados ao mundo para nos tornarmos, com coragem e sem medo, arautos da Boa Nova, testemunhas do Amor que nos regenerou. Este movimento – entrar e sair –, podemos captá-lo a partir doutra imagem que Jesus utiliza: a da porta. Diz Ele: «Eu sou a porta. Se alguém entrar por Mim, estará salvo; há de entrar e sair e achará pastagem» (10, 9). Ouçamos com atenção isto: há de entrar e sair. Por um lado, Jesus é a porta que se abriu de par em par a fim de nos fazer entrar na comunhão do Pai e experimentar a sua misericórdia; mas, como todos sabem, uma porta aberta serve não só para entrar, mas também para sair do lugar onde nos encontramos. Assim, depois de nos ter reconduzido ao abraço de Deus e ao redil da Igreja, Jesus é a porta que nos faz sair para o mundo: Ele impele-nos a ir ao encontro dos irmãos. E – fixemo-lo bem na memória! – todos nós, sem exceção, somos chamados a isto: sair das nossas comodidades e ter a coragem de alcançar toda a periferia que necessita da luz do Evangelho (cf. Papa Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Irmãos e irmãs, para cada um de nós, viver «em saída» significa tornar-se, como Jesus, uma porta aberta. É triste e custa ver portas fechadas: as portas fechadas do nosso egoísmo em relação a quem caminha diariamente ao nosso lado; as portas fechadas do nosso individualismo numa sociedade que corre o risco de se atrofiar na solidão; as portas fechadas da nossa indiferença em relação a quem está no sofrimento e na pobreza; as portas fechadas a quem é estrangeiro, diferente, migrante, pobre. E até as portas fechadas das nossas comunidades eclesiais: fechadas entre nós, fechadas para o mundo, fechadas para quem «não está dentro das normas», fechadas para quem aspira pelo perdão de Deus. Irmãos e irmãs, por favor, por favor: abramos as portas! Procuremos ser também nós – com as palavras, os gestos, as atividades quotidianas – como Jesus: uma porta aberta, uma porta que nunca se fecha na cara de ninguém, uma porta que a todos permite entrar para experimentar a beleza do amor e do perdão do Senhor.

Repito isto sobretudo para mim mesmo, para os irmãos bispos e sacerdotes: para nós, pastores. Porque o pastor – diz Jesus – não é um salteador nem um ladrão (cf. Jo 10, 8); isto é, não se aproveita da sua função, não oprime o rebanho que lhe está confiado, não «rouba» o espaço aos irmãos leigos, não exerce uma autoridade rígida. Irmãos, encorajemo-nos a ser portas sempre mais abertas: «facilitadores» da graça de Deus, peritos de proximidade, dispostos a oferecer a vida, como Jesus Cristo, nosso Senhor e nosso tudo, nos ensina de braços abertos a partir da cátedra da cruz e sempre no-lo mostra no altar, Pão vivo repartido para nós. Digo-o também aos irmãos e irmãs leigos, aos catequistas, aos agentes pastorais, a quem tem responsabilidades políticas e sociais, àqueles que simplesmente levam para a frente a sua vida quotidiana, por vezes com dificuldade: sede portas abertas. Deixemos entrar no coração o Senhor da vida, a sua Palavra que consola e cura, para depois sairmos fora e sermos, nós mesmos, portas abertas na sociedade. Estar abertos e ser inclusivos uns para com os outros, para ajudar a Hungria a crescer na fraternidade, caminho da paz.

Caríssimos, Jesus bom Pastor chama-nos por nome e cuida de nós com infinita ternura. É a porta e quem entra através d’Ele tem a vida eterna: portanto Ele é o nosso futuro, um futuro de «vida em abundância» (Jo 10, 10). Por isso, nunca desanimemos, nunca deixemos roubar a alegria e a paz que Ele nos deu, não nos fechemos nos problemas ou na apatia. Deixemo-nos acompanhar pelo nosso Pastor: com Ele resplandeçam de vida nova a nossa própria vida, as nossas famílias, as nossas comunidades cristãs e toda a Hungria!

[00688-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Ostatnie słowa, które Jezus wypowiada w usłyszanej przez nas Ewangelii, streszczają sens Jego misji: „Ja przyszedłem po to, aby owce miały życie, i miały je w obfitości” (J 10, 10). Tak właśnie postępuje dobry pasterz: oddaje swoje życie za swoje owce. Tak więc Jezus, jak pasterz, który idzie szukać swojej owczarni, przyszedł nas szukać, gdy byliśmy zagubieni. Tak jak pasterz przyszedł wyrwać nas ze śmierci; jak pasterz, który zna każdą ze swoich owiec i je miłuje z nieskończoną czułością, wprowadził nas do owczarni Ojca, czyniąc swoimi dziećmi.

Kontemplujmy zatem obraz Dobrego Pasterza i zastanówmy się nad dwiema czynnościami, które według Ewangelii wykonuje On wobec swoich owiec: najpierw je woła, a następnie wyprowadza.

1. Przede wszystkim „woła swoje owce” (w. 3). Na początku naszej historii zbawienia nie jesteśmy my z naszymi zasługami, naszymi zdolnościami, naszymi strukturami; na początku jest wezwanie Boga, Jego pragnienie dotarcia do nas, Jego troska o każdego z nas, obfitość miłosierdzia Boga, który chce nas wybawić od grzechu i śmierci, aby dać nam życie w obfitości i radość bez końca. Jezus przyszedł jako Dobry Pasterz ludzkości, aby nas wezwać i przyprowadzić do domu. A zatem my, pamiętając o tym z wdzięcznością, możemy wspominać Jego miłość do nas, do nas, którzy byliśmy od Niego oddaleni. Tak, podczas gdy „wszyscy pobłądziliśmy jak owce” i „każdy z nas się zwrócił ku własnej drodze” (Iz 53, 6), On wziął na siebie nasze nieprawości i obarczył się naszymi grzechami, przyprowadzając nas z powrotem do serca Ojca. To właśnie usłyszeliśmy od apostoła Piotra w drugim czytaniu: „Błądziliście bowiem jak owce, ale teraz nawróciliście się do Pasterza i Stróża dusz waszych” (1 P 2, 25). Także dzisiaj, w każdej sytuacji życiowej, w tym, co nosimy w sercu, w naszych rozterkach, w naszych lękach, w poczuciu klęski, która nas niekiedy ogarnia, w niewoli smutku, który grozi nam zamknięciem w klatce, On nas woła. Przychodzi jako Dobry Pasterz i wzywa nas po imieniu, aby powiedzieć nam, jak cenni jesteśmy w Jego oczach, aby uleczyć nasze rany i wziąć na siebie nasze słabości, aby zgromadzić nas w jedno w swojej owczarni i uczynić nas bliskimi Ojcu i sobie nawzajem.

Bracia i siostry, stojąc tu dziś rano, odczuwamy radość z tego, że jesteśmy świętym Ludem Bożym: wszyscy narodziliśmy się z Jego wezwania; to On nas wezwał i dlatego jesteśmy Jego ludem, Jego owczarnią, Jego Kościołem. Zebrał nas tutaj, aby pomimo tego, że różnimy się od siebie i należymy do różnych wspólnot, wspaniałość Jego miłości zgromadziła nas wszystkich w jednym objęciu. Dobrze jest spotkać się razem: biskupi i kapłani, zakonnicy i wierni świeccy; i dobrze jest dzielić tę radość z delegacjami ekumenicznymi, ze zwierzchnikami wspólnot żydowskich, z przedstawicielami instytucji cywilnych i korpusu dyplomatycznego. To jest właśnie katolickość: my wszyscy, wezwani po imieniu przez Dobrego Pasterza, jesteśmy powołani do przyjęcia i szerzenia Jego miłości, do tego, by Jego owczarnia była włączająca, a nigdy wykluczająca. I dlatego wszyscy jesteśmy wezwani do pielęgnowania relacji braterstwa i współpracy, nie wprowadzając podziałów między sobą, nie traktując naszej wspólnoty jak zamkniętej społeczności, nie pozwalając, by kierowała nami troska o obronę własnej przestrzeni, lecz otwierając się na wzajemną miłość.

2. Po przywołaniu owiec Pasterz „wyprowadza je” (J 10, 3). Najpierw wprowadził je do owczarni, wołając je, teraz zachęca do wyjścia. Najpierw zostajemy zgromadzeni w rodzinie Bożej, abyśmy się stali Jego ludem, a następnie zostajemy posłani w świat, abyśmy odważnie i bez lęku stali się zwiastunami Dobrej Nowiny, świadkami Miłości, która nas odrodziła. Ten ruch – wejście i wyjście – możemy pojąć na podstawie innego obrazu, jakiego używa Jezus: obrazu bramy. On mówi: „Ja jestem bramą. Jeżeli ktoś wejdzie przeze Mnie, będzie zbawiony – wejdzie i wyjdzie, i znajdzie pastwisko” (w. 9). Usłyszmy to jeszcze raz: wejdzie i wyjdzie. Z jednej strony Jezus jest bramą, która została szeroko otwarta, abyśmy mogli wejść do wspólnoty Ojca i doświadczyć Jego miłosierdzia; ale, jak wszyscy wiedzą, otwarta brama służy nie tylko do wchodzenia, ale także do wychodzenia z miejsca, w którym się znajdujemy. Zatem przywiódłszy nas z powrotem w objęcia Boga i do owczarni Kościoła, Jezus staje się bramą, która pozwala nam wyjść na świat – wzywa On nas do wyjścia na spotkanie z braćmi. I dobrze to zapamiętajmy: wszyscy, nikogo nie wykluczając, jesteśmy do tego wezwani – do opuszczenia naszych stref komfortu i do znalezienia odwagi, aby dotrzeć na każde peryferie, które potrzebują światła Ewangelii (por. Adhort. apost. Evangelii gaudium, 20).

Bracia i siostry, być „wychodzącym” oznacza dla każdego z nas stawanie się, jak Jezus, otwartą bramą. Smutny i bolesny jest widok zamkniętych bram – zamkniętych bram naszego egoizmu wobec tych, którzy codziennie przechodzą obok nas; zamkniętych bram naszego indywidualizmu w społeczeństwie, któremu grozi obumieranie w samotności; zamkniętych bram naszej obojętności wobec cierpiących i ubogich; zamkniętych bram dla tych, którzy są obcy, inni, migrujący, ubodzy. A także zamkniętych bram naszych wspólnot kościelnych – zamkniętych dla siebie nawzajem, zamkniętych dla świata, zamkniętych dla tych, którzy nie mają uregulowanej sytuacji życiowej, zamkniętych dla tych, którzy pragną Bożego przebaczenia. Bracia i siostry, proszę, proszę: otwórzmy te bramy! Także my starajmy się – poprzez słowa, gesty, codzienne czynności – być jak Jezus: otwartą bramą, bramą, która nigdy nie zostaje zatrzaśnięta nikomu przed nosem, bramą, która pozwala wejść wszystkim, aby doświadczyć piękna miłości i przebaczenia Pana.

Powtarzam to szczególnie sobie, moim braciom biskupom i księżom – nam, pasterzom. Bo pasterz, jak mówi Jezus, nie jest złodziejem czy rozbójnikiem (por. J 10, 8); to znaczy nie wykorzystuje swojej roli, nie uciska powierzonej mu owczarni, nie „kradnie” przestrzeni swoim braciom świeckim, nie sprawuje surowej władzy. Bracia, zachęcajmy się nawzajem do bycia bramami coraz bardziej otwartymi – „pomocnikami” Bożej łaski, ekspertami od bliskości, gotowymi ofiarować własne życie, tak jak Jezus Chrystus, nasz Pan i nasze wszystko, uczy nas tego z otwartymi ramionami z katedry krzyża i objawia nam za każdym razem na ołtarzu, jako żywy Chleb, łamany dla nas. Mówię to również do braci i sióstr świeckich, do katechetów, do osób zaangażowanych w duszpasterstwo, do pełniących obowiązki polityczne i społeczne, do tych, którzy po prostu wiodą swoje codzienne życie, czasem z trudem: bądźcie otwartymi bramami!. Pozwólmy Panu życia wejść do naszych serc, Jego Słowu, które pociesza i uzdrawia, a następnie wyjdźmy i bądźmy otwartymi bramami w społeczeństwie. Bądźmy dla siebie nawzajem otwarci i jednoczący, aby pomóc Węgrom wzrastać w braterstwie, drodze do pokoju.

Umiłowani, Jezus Dobry Pasterz woła nas po imieniu i troszczy się o nas z nieskończoną czułością. On jest bramą, a kto wchodzi przez Niego, ma życie wieczne – On jest zatem naszą przyszłością, przyszłością „życia w obfitości” (por. J 10, 10). Dlatego nie zniechęcajmy się nigdy, nie pozwólmy nigdy, by skradziono nam radość i pokój, które On nam ofiarował. Nie zamykajmy się w problemach czy apatii. Niech nam towarzyszy nasz Pasterz – z Nim nasze życie, nasze rodziny, nasze wspólnoty chrześcijańskie i całe Węgry zajaśnieją nowym życiem!

[00688-PL.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

الزيارة الرسوليّة إلى هنغاريا

عظة قداسة البابا فرنسيس

في القدّاس الإلهيّ في الأحد الرابع من الزمن الفصحيّ

في ساحة Kossuth Lajos في بودابست

الأحد 30 نيسان/أبريل 2023

الكلمات الأخيرة التي قالها يسوع، في الإنجيل الذي سمعناه، تلخّص معنى رسالته، قال: "أَمَّا أَنا فقَد أَتَيتُ لِتَكونَ الحَياةُ لِلنَّاس، وتَفيضَ فيهِم" (يوحنّا 10، 10). هذا ما يصنعه الرّاعي الصّالح: يبذل نفسه في سبيل خرافه. وهكذا يسوع، مثل الرّاعي الذي يبحث عن قطيعه، جاء ليبحث عنّا عندما كنا ضائعين، ومثل الرّاعي، جاء لينتشلنا من الموت، ومثل الرّاعي، الذي يعرف خرافه واحدًا واحدًا ويحبّها بحنان غير محدود، أدخلنا إلى حظيرة الآب، وجعلنا نصير أبناءه.

لنتأمّل إذن في صورة الرّاعي الصّالح، ولنتوقّف عند فِعلَين اللذين قام بهما يسوع من أجل خرافه، بحسب الإنجيل: أوّلًا دعاها، ثمَّ قادها خارجًا.

١. أوّلًا، "يَدعو خِرافَه" (الآية 3). في بداية تاريخنا الخلاصيّ، لم نكن نحن مع استحقاقاتنا وقدراتنا وهيكليّاتنا، بل في البّداية كانت دعوة الله، وإرادته للوصول إلينا، واهتمامه بكلّ واحدٍ منّا، ووفرة رحمته التي تريد أن تخلّصنا من الخطيئة والموت، لكي يعطينا الحياة الوافرة والفرح الذي لا نهاية له. جاء يسوع مثل راعي البشريّة الصّالح لكي يدعونا ويُعيدنا إلى البيت. لذلك، إن تذكّرنا بِشُكُر، يمكننا أن نتذكّر حبّه لنا، نحن الذين كنّا بعيدين عنه. نعم، بينما "كُلُّنا ضَلَلْنا كالغَنَم" و "كُلُّ واحِدٍ مالَ إِلى طَريقِه" (أشعيا 53، 6)، هو حَمَلَ على عاتقه آثامنا وخطايانا، وأعادنا إلى قلب الآب. هذا ما سمعناه من الرّسول بطرس في القراءة الثّانية: "فقَد كُنتُم كالغَنَمِ ضالِّين، أَمَّا الآن فقَد رَجَعتُم إِلى راعي نُفوسِكم وحارِسِها" (1 بطرس 2، 25). واليوم أيضًا، في كلّ موقف من مواقف الحياة، وفي ما نحمله في قلوبنا، وفي ضياعنا، وفي مخاوفنا، وشعورنا بالهزيمة التي تهاجمنا أحيانًا، وفي سجن الحزن الذي يهدّد بأن يقيّدنا، هو يدعونا. إنّه الرّاعي الصّالح الذي يدعونا باسمنا، لكي يقول لنا كم نحن عزيزون في عينيه، ولكي يشفي جراحنا ويأخذ على عاتقه ضعفنا، ولكي يجمعنا معًا في حظيرته، ويجعلنا قريبين من الآب وفيما بيننا.

أيّها الإخوة والأخوات، نحن هنا في هذا الصّباح، لنشعر بالفرح لأنّنا شعب الله المقدّس: وُلِدْنا كلّنا من دعوته، وهو الذي دعانا ولهذا السّبب نحن شعبه وقطيعه وكنيسته. جَمَعَنا هنا حتّى يوحّدنا كلّنا بحبّه الكبير لنا في عِناقٍ واحد، على الرّغم من أنّنا مختلفون فيما بيننا وننتمي إلى جماعات مختلفة. جميلٌ أن نلتقي معًا: الأساقفة والكهنة، والرّهبان والمؤمنون العلمانيّون، وجميلٌ أن نتشارك هذا الفرح مع الوفود المسكونيّة، ورؤساء الجماعة اليهوديّة، وممثّلي المؤسّسات المدنيّة والسّلك الدّبلوماسيّ. هذه هي الكاثوليكيّة: نحن كلّنا، يدعونا الرّاعي الصّالح بأسمائنا، يدعونا إلى قبول محبّته ونشرها، ولنجعل حظيرته شاملةً لا تُقصي أحدًا على الإطلاق. ولذلك، نحن كلّنا مدعوّون إلى أن ننمّي علاقات الأخوّة والتّعاون، من دون أن ننقسم فيما بيننا، ومن دون أن نعتبر جماعتنا بيئة محمية، ومن دون أن نَنشَغِل في أن يدافع كلّ واحد عن مساحتنا الخاصّة، بل ننفَتِح على المحبّة المتبادلة.

2. يدعو الخراف، و"يُخرِجُها" (يوحنّا 10، 3). في البداية دعاها وأدخلها إلى الحظيرة، والآن يدفعها إلى الخارج. أوّلًا، نجتمع في عائلة الله لنكون شعبه، ولكن بعد ذلك نُرسَل إلى العالم حتّى نصير بشجاعة ومن دون خوف مبشّرين نحمل البشرى السّارّة، وشهودًا للحبّ الذي ولدنا من جديد. هذه الحركة - الدّخول والخروج – يمكننا أن ندركها في صورة أخرى يستخدمها يسوع، وهي: صورة الباب. قال يسوع: "أَنا الباب فمَن دَخَلَ مِنِّي يَخلُص، يَدخُلُ ويَخرُجُ ويَجِدُ مَرْعًى" (الآية 9). لنستمع من جديد إلى هذه الكلمات: يدخل ويخرج. من جهة، يسوع هو الباب الذي انفتح على مصراعيه لكي يُدخلنا في شركة مع الآب ويجعلنا نختبر رحمته، ولكن، كما يعلَم الجميع، الباب المفتوح يُستخدم ليس فقط للدخول، بل أيضًا للخروج من المكان الذي نكون فيه. ولذلك، بعد أن أعادنا من جديد إلى حضن الله وإلى حظيرة الكنيسة، يسوع هو الباب الذي يجعلنا نخرج نحو العالم: فهو يدفعنا لأن نذهب ونُلاقي الإخوة. ولنتذكّر ذلك جيّدًا: كلّنا، ومن دون استثناء، مدعوّون لذلك، للخروج من راحتنا ولأن تكون فينا الشّجاعة لأن نَصِل إلى كلّ الأطراف المهملة التي تحتاج إلى نور الإنجيل (راجع الإرشاد الرّسولي، فرح الإنجيل، 20).

أيّها الإخوة والأخوات، أن نكون ”في حالة خروج“ يعني أن يصير كلّ واحدٍ منّا، مثل يسوع، بابًا مفتوحًا. إنّه لمحزنٌ ومؤلمٌ أن نرى الأبواب مغلقة: أبواب أنانيّتنا المغلقة تجاه الذين يسيرون بجانبنا كلّ يوم، وأبواب فرديّتنا المغلقة في مجتمع تهدّده الوِحدة بالشّلل، وأبواب لامبالاتنا المغلقة تجاه المعذّبين والفقراء، وأبوابنا المغلقة أمام الغريب والمختلف عنّا والمهاجر والفقير. وحتّى أبواب جماعاتنا الكنسيّة المغلقة: إنّها مغلقة فيما بيننا، ومغلقة على العالم، ومغلقة على من هم ”ليسوا في وضعٍ قانونيّ“، ومغلقة على الذين يتوقون إلى مغفرة الله. من فضلكم: لنفتح الأبواب! لنحاول أن نكون نحن أيضًا مثل يسوع – بالكلام والأعمال والأنشطة اليوميّة -: لنكن بابًا مفتوحًا، بابًا لا يُغلق أبدًا في وجه أيّ أحدٍ، وبابًا يسمح للجميع بالدّخول واختبار جمال محبّة الرّبّ يسوع ومغفرته.

أكرّر هذا على نفسي خصوصًا، وعلى الإخوة الأساقفة والكهنة: علينا نحن الرّعاة. لأنّ الرّاعي، كما قال يسوع، ليس سارقًا أو لصًّا (راجع يوحنّا 10، 8)، أيْ لا يستغلّ مهمّته، ولا يضطهد القطيع الموكول إليه، ولا ”يسرق“ المساحة من الإخوة العلمانيّين، ولا يُمارس سُلطة متشدّدة. أيّها الإخوة، لنتشجّع كي نكون أبوابًا دائمًا مفتوحة: ”مُيَسِّرِينَ“ لنعمة الله، وخُبراء في المودة، ومستعدّين لأن نقدّم حياتنا، كما علّمنا يسوع المسيح، الذي هو ربّنا وكلّ شيء لنا، بذراعيه المفتوحتَين من على مِنبر الصّليب، ويَظهر لنا في كلّ مرّة على المذبح، الخبز الحيّ المكسور من أجلنا. وأقول ذلك أيضًا للإخوة والأخوات العلمانيّين، ولمعلّمي التّعليم المسيحيّ، وللعاملين الرّعويّين، ولكلّ الذين لهم مسؤوليّات سياسيّة واجتماعيّة، وللذين ببساطة يواصلون حياتهم اليوميّة، بصعوبة أحيانًا: كونوا أبوابًا مفتوحة. لندع رَبَّ الحياة يدخل إلى القلوب، وكلمته التي تعزّي وتشفي، ثمّ نخرج نحن، ونكون نحن أنفسنا أبوابًا مفتوحة في المجتمع. لنكن منفتحين ونقبل بعضنا بعضًا، حتّى نساعد هنغاريا لتنمو في الأخوّة، التي هي طريق السّلام.

أيّها الأعزّاء، يسوع الرّاعي الصّالح يدعونا بأسمائنا ويهتمّ بنا بحنان لا نهاية له. هو الباب ومن يدخل منه تكون له الحياة الأبديّة: هو مستقبلنا، مستقبل "الحياة الفائضة فينا" (يوحنّا 10، 10). لذلك، يجب ألّا تَهِنَ عزيمتنا أبدًا، وألّا نسمح أبدًا بأن يُسرقَ منّا الفرح والسّلام اللذَان أعطانا إيّاهما، وألّا ننغلق على مشاكلنا أو لامبالاتنا. لندع راعينا يرافقنا: فمعه ستتألّق حياتنا وعائلاتنا وجماعاتنا المسيحيّة وهنغاريا كلّها بحياة جديدة!

[00688-AR.02] [Testo originale: Italiano]

Le parole del Santo Padre prima della recita del Regina Caeli

Testo in lingua italiana

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Testo in lingua italiana

Ringrazio il Cardinale Erdő per le sue parole. Saluto la Signora Presidente, il Primo Ministro e le Autorità presenti. Ormai prossimo a rientrare a Roma, desidero esprimere riconoscenza a loro, ai fratelli Vescovi, ai sacerdoti, alle consacrate e ai consacrati e a tutto l’amato popolo ungherese per l’accoglienza e per l’affetto che ho provato in questi giorni. Ed esprimo gratitudine a chi è giunto qui da lontano e a chi ha tanto, e tanto bene, lavorato per questa visita. A tutti dico: köszönöm, Isten fizesse! [grazie, Dio vi ricompensi!] Un ricordo speciale per gli ammalati e per gli anziani, per chi non ha potuto essere qui, per chi si sente solo e per chi ha smarrito la fede in Dio e la speranza nella vita. Vi sono vicino, prego per voi e vi benedico.

Saluto i Diplomatici e i fratelli e le sorelle di altre confessioni cristiane. Grazie per la vostra presenza e grazie perché in questo Paese confessioni e religioni diverse si incontrano e si sostengono a vicenda. Il Cardinale Erdő ha detto che qui si vive «al confine orientale della cristianità occidentale da mille anni». È bello che i confini non rappresentino frontiere che separano, ma zone di contatto; e che i credenti in Cristo mettano al primo posto la carità che unisce e non le differenze storiche, culturali e religiose che dividono. Ci accomuna il Vangelo ed è tornando lì, alle sorgenti, che il cammino tra i cristiani proseguirà secondo la volontà di Gesù, Buon Pastore che ci vuole uniti in un solo gregge.

Ci rivolgiamo ora alla Madonna. A lei, Magna Domina Hungarorum, che invocate come Regina e Patrona, affido tutti gli ungheresi. E da questa grande città e da questo nobile Paese vorrei riporre nel suo cuore la fede e il futuro dell’intero Continente europeo, a cui ho pensato in questi giorni, e in modo particolare la causa della pace. Santa Vergine, guarda ai popoli che più soffrono. Guarda soprattutto al vicino martoriato popolo ucraino e al popolo russo, a te consacrati. Tu sei la Regina della pace, infondi nei cuori degli uomini e dei responsabili delle Nazioni il desiderio di costruire la pace, di dare alle giovani generazioni un futuro di speranza, non di guerra; un avvenire pieno di culle, non di tombe; un mondo di fratelli, non di muri.

Noi guardiamo a te, Santa Madre di Dio: dopo la risurrezione di Gesù hai accompagnato i primi passi della comunità cristiana, rendendola perseverante e concorde nella preghiera (cfr At 1,14). Così hai tenuto insieme i credenti, custodendo l’unità con il tuo esempio docile e servizievole. Ti preghiamo per la Chiesa in Europa, perché ritrovi la forza della preghiera, perché riscopra in te l’umiltà e l’obbedienza, l’ardore della testimonianza e la bellezza dell’annuncio. A te affidiamo questa Chiesa e questo Paese. Tu, che hai esultato per il tuo Figlio risorto, riempi i nostri cuori della sua gioia. Cari fratelli e sorelle, questo vi auguro, di diffondere la gioia di Cristo: Isten éltessen![Auguri!]. Grato per questi giorni, vi porto nel cuore e vi chiedo di pregare per me.Isten áld meg a magyart! [Dio benedica gli ungheresi!]

[00689-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Je remercie le Cardinal Erdő pour ses paroles. Je salue Madame la Présidente, le Premier Ministre et les Autorités présentes. Avant mon départ pour Rome, je voudrais leur exprimer, ainsi qu’aux frères Évêques, aux prêtres, aux personnes consacrées et à tout le peuple hongrois bien-aimé, ma reconnaissance pour l’accueil et pour l’affection que j’ai éprouvés ces jours-ci. Et j’exprime ma gratitude à ceux qui sont venus ici de loin et à ceux qui ont bien, et si bien, travaillé pour cette visite. À tous je dis: köszönöm, Isten fizesse! [merci, que Dieu vous récompense!] Une pensée spéciale pour les malades et pour les personnes âgées, pour ceux qui n’ont pas pu être ici, pour ceux qui se sentent seuls et pour ceux qui ont perdu la foi en Dieu et l’espérance en la vie. Je suis proche de vous, je prie pour vous et je vous bénis.

Je salue les Diplomates et les frères et sœurs d’autres confessions chrétiennes. Merci de votre présence et merci parce que, dans ce pays, des confessions et des religions différentes se rencontrent et se soutiennent mutuellement. Le Cardinal Erdő a dit que l’on vit ici «à la frontière orientale de la chrétienté occidentale depuis mille ans». Il est bien que les confins ne représentent pas des frontières qui séparent, mais des zones de contact; et que les croyants dans le Christ mettent à la première place la charité qui unit et non pas les différences historiques, culturelles et religieuses qui divisent. L’Évangile nous unit et c’est en y revenant, aux sources, que le chemin entre les chrétiens se poursuivra selon la volonté de Jésus, Bon Pasteur qui veut que nous soyons unis en un seul troupeau.

Nous nous adressons maintenant à la Vierge Marie. À elle, Magna Domina Hungarorum, que vous invoquez comme Reine et Patronne, je confie tous les Hongrois. Et de cette grande ville et de ce noble pays, je voudrais remettre en son cœur la foi et l’avenir de tout le continent européen, auquel j’ai pensé ces jours-ci, et de façon particulière la cause de la paix. Vierge Sainte, regarde les peuples qui souffrent le plus. Regarde surtout le tout proche peuple ukrainien meurtri, et le peuple russe, qui te sont consacrés. Tu es la Reine de la paix, répands dans le cœur des hommes et des responsables des nations le désir de construire la paix, de donner aux jeunes générations un avenir d’espérance, non de guerre; un avenir plein de berceaux, non de tombes; un monde de frères, non de murs.

Nous nous tournons vers toi, Sainte Mère de Dieu: après la résurrection de Jésus, tu as accompagné les premiers pas de la communauté chrétienne, en la rendant persévérante et unie dans la prière (cf. Ac 1, 14). Ainsi tu as maintenu ensemble les croyants, en gardant l’unité par ton exemple docile et serviable. Nous te prions pour l’Église en Europe, afin qu’elle retrouve la force de la prière, pour qu’elle redécouvre en toi l’humilité et l’obéissance, l’ardeur du témoignage et la beauté de l’annonce. Nous te confions cette Église et ce pays. Toi qui as exulté pour ton Fils ressuscité, remplis nos cœurs de sa joie. Chers frères et sœurs, je vous souhaite de répandre la joie du Christ: Isten éltessen![Bonne fête!]. Reconnaissant pour ces journées, je vous porte dans mon cœur et je vous demande de prier pour moi. Isten áld meg a magyart! [Que Dieu bénisse les Hongrois!]

[00689-FR.01] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

I thank Cardinal Erdő for his kind words, and I greet Her Excellency the President, the Prime Minister and the Authorities present. As I prepare to return to Rome, I wish to express my gratitude to them, to my brother bishops, the priests and consecrated men and women, and to all the beloved Hungarian people for their warm welcome and the affection I have experienced in these days. I am also grateful to those who travelled a great distance to be here and to those who worked so hard, and so well, for this visit. To all of you I say, köszönöm, Isten fizesse! [Thank you, may God reward you!]. I think especially of the sick and the elderly, of those who were unable to be present with us, of those who are lonely and those who have lost faith in God and hope in life. I am close to all of you; I pray for you and I give you my blessing.

My greeting goes likewise to the members of the Diplomatic Corps and our brothers and sisters of other Christian confessions. I thank you for your presence and for the fact that in this country the different confessions and religions interact and are supportive of one another. Cardinal Erdő said that here you have been living “on the eastern border of Western Christianity for a thousand years.” It is a beautiful thing when borders do not represent boundaries that separate, but points of contact, and when believers in Christ emphasize first the charity that unites us, rather than the historical, cultural and religious differences that divide us. We are united by the Gospel, and it is by returning there, to the source, that our ecumenical journey will continue, in accordance with the will of Jesus, the Good Shepherd, who desires us to be united in one flock.

We now turn to Our Lady. To her, Magna Domina Hungarorum, whom you invoke as Queen and Patroness, I entrust all Hungarians. From this great city and from this noble country, I desire to entrust to her heart the faith and the future of the entire continent of Europe, which has been on my mind in these days and, in particular, the cause of peace. Blessed Virgin, watch over the peoples who suffer so greatly. In a special way, watch over the neighbouring, beleaguered Ukrainian people and the Russian people, both consecrated to you. You, who are the Queen of Peace, instil in the hearts of peoples and their leaders the desire to build peace and to give the younger generations a future of hope, not war, a future full of cradles not tombs, a world of brothers and sisters, not walls and barricades.

To you do we turn, Holy Mother of God! After the resurrection of Jesus, you accompanied the first steps of the Christian community, helping the disciples to persevere as one in prayer (cf. Acts 1:14). You held the faithful together, guarding their unity by your docile and generous example. We pray to you for the Church in Europe, that she may find strength in prayer, renewed humility and obedience, and be an example of convincing witness and joyful proclamation. To you we entrust this Church and this country. As you exulted in the resurrection of your Son, so fill our hearts with the joy of his presence. Dear brothers and sisters, this is my wish for you, that you may spread everywhere the joy of Christ. Isten éltessen! [Best wishes!]. With gratitude for these days, I keep you in my heart and I ask you to pray for me. Isten áld meg a magyart! [God bless the Hungarians!]

[00689-EN.01] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Ich danke Kardinal Erdő für seine Worte. Ich grüße die Frau Präsidentin, den Ministerpräsidenten und die anwesenden Autoritäten. Nun, da ich im Begriff bin, nach Rom zurückzukehren, möchte ich Ihnen, meinen Mitbrüdern im Bischofsamt, den Priestern, den gottgeweihten Männern und Frauen und dem ganzen geliebten ungarischen Volk meinen Dank für die Gastfreundschaft und die Zuneigung aussprechen, die ich in diesen Tagen erfahren habe. Und ich danke denen, die von weit her gekommen sind, und denen, die so viel und so gut zum Gelingen dieses Besuchs beigetragen haben. Ihnen allen sage ich: köszönöm, Isten fizesse! [Danke. Vergelt’s Gott!] Besonderes gedenke ich der Kranken und der älteren Menschen, derer, die nicht hier sein konnten, derer, die sich allein fühlen und derer, die den Glauben an Gott und die Hoffnung im Leben verloren haben. Ich bin euch nahe, ich bete für euch und segne euch.

Ich grüße die Diplomaten und die Brüder und Schwestern der anderen christlichen Konfessionen. Danke für Ihre Anwesenheit und danke dafür, dass die verschiedenen Konfessionen und Religionen in diesem Land einander begegnen und sich gegenseitig unterstützen. Kardinal Erdő hat gesagt, dass man hier »seit tausend Jahren an der Ostgrenze des westlichen Christentums« lebt. Es ist schön, dass diese Grenzen keine trennenden Linien darstellen, sondern Kontaktzonen; und dass die Christgläubigen der Nächstenliebe den Vorzug geben, die vereint, und nicht den historischen, kulturellen und religiösen Unterschieden, die trennen. Das Evangelium eint uns, und indem wir dorthin zurückkehren, zum Ursprung, wird der gemeinsame Weg der Christen nach dem Willen Jesu weitergehen, des Guten Hirten, , der uns in einer einzigen Herde vereint sehen will.

Wir wenden uns nun an die Muttergottes. Ihr, der Magna Domina Hungarorum, die ihr als Königin und Patronin anruft, vertraue ich alle Ungarn an. Und von dieser großen Stadt und diesem großartigen Land aus möchte ich ihrem Herzen den Glauben und die Zukunft des gesamten europäischen Kontinents, dessen ich in diesen Tagen gedacht habe, anvertrauen, insbesondere das Anliegen des Friedens. Heilige Jungfrau, schau auf die Völker, die am meisten leiden. Sieh besonders auf das gepeinigte ukrainische Nachbarvolk und auf das russische Volk, die dir geweiht sind. Du bist die Königin des Friedens, wecke in den Herzen der Menschen und der Verantwortlichen der Nationen den Wunsch, Frieden zu schaffen, und den jungen Generationen eine Zukunft der Hoffnung und nicht des Krieges zu bieten; eine Zukunft voller Wiegen und nicht voller Gräber; eine Welt der Geschwisterlichkeit und nicht der Mauern.

Wir blicken auf dich, heilige Mutter Gottes: Nach der Auferstehung Jesu hast du die ersten Schritte der christlichen Gemeinschaft begleitet und ihnen Ausdauer und Einmütigkeit im Gebet verliehen (vgl. Apg 1,14). So hast du die Gläubigen zusammengehalten und die Einheit mit deinem gehorsamen und dienenden Beispiel bewahrt. Wir bitten dich für die Kirche in Europa, dass sie die Kraft des Gebets wiederfinde, dass sie in dir Demut und Gehorsam, den Eifer im Zeugnisgeben und die Schönheit der Verkündigung wiederentdecke. Dir vertrauen wir diese Kirche und dieses Land an. Du, die du angesichts deines auferstandenen Sohnes frohlockt hast, erfülle unsere Herzen mit seiner Freude. Liebe Brüder und Schwestern, dies wünsche ich euch, dass Ihr die Freude Christi verbreitet: Isten éltessen! [Alles Gute!]. Dankbar für diese Tage, trage ich euch in meinem Herzen und bitte euch, für mich zu beten. Isten áld meg a magyart! [Gott segne die Ungarn!]

[00689-DE.01] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Agradezco al cardenal Erdő sus palabras. Saludo a la señora Presidenta, al Primer Ministro y a las autoridades presentes. Ya próximo a regresar a Roma, deseo expresarles mi agradecimiento a ellos, a los hermanos obispos, a los sacerdotes, a las consagradas y a los consagrados, y a todo el amado pueblo húngaro por la acogida y el afecto que he sentido en estos días. Y manifiesto mi gratitud a los que han venido desde lejos y a los que han trabajado tanto y tan bien por esta visita. A todos les digo: köszönöm, Isten fizesse! [¡gracias, que Dios los recompense!] Un recuerdo especial por los enfermos y los ancianos, por quienes no han podido estar aquí, por quienes se sienten solos y por quienes han perdido la fe en Dios y la esperanza en la vida. Estoy cerca de ustedes, rezo por ustedes y los bendigo.

Saludo a los diplomáticos y a los hermanos y hermanas de otras confesiones cristianas. Gracias por su presencia y gracias porque en este país diversas confesiones y religiones se encuentran y se sostienen recíprocamente. El cardenal Erdő ha dicho que aquí se vive “en la frontera oriental de la cristiandad occidental desde hace mil años”. Es hermoso que las fronteras no representen barreras que separan, sino zonas de contacto; y que los creyentes en Cristo pongan en primer lugar la caridad que une y no las diferencias históricas, culturales y religiosas que dividen. Nos congrega el Evangelio y es volviendo allí, a las fuentes, donde el camino entre los cristianos proseguirá según la voluntad de Jesús, Buen Pastor, que nos quiere unidos en un solo rebaño.

Nos dirigimos ahora a la Virgen. A ella, Magna Domina Hungarorum, a quien invocan como Reina y Patrona, le encomiendo a todos los húngaros. Y desde esta gran ciudad y desde este noble país quisiera confiar de nuevo a su corazón la fe y el futuro de todo el continente europeo, en el que he estado pensando estos días y, de modo particular, la causa de la paz. Santísima Virgen, mira a los pueblos que más sufren. Mira sobre todo al cercano y martirizado pueblo ucraniano y al pueblo ruso, consagrados a ti. Tú eres la Reina de la paz, infunde en los corazones de los hombres y de los responsables de las naciones el deseo de construir la paz, de dar a las jóvenes generaciones un futuro de esperanza, no de guerra; un futuro lleno de cunas, no de tumbas; un mundo de hermanos, no de muros.

Acudimos a ti, Santa Madre de Dios: después de la resurrección de Jesús acompañaste los primeros pasos de la comunidad cristiana, haciéndola perseverante y unánime en la oración (cf. Hch 1,14). Así mantuviste unidos a los creyentes, preservando la unidad con tu ejemplo dócil y servicial. Te pedimos por la Iglesia en Europa, para que encuentre la fuerza de la oración; para que descubra en ti la humildad y la obediencia, el ardor del testimonio y la belleza del anuncio. A ti te encomendamos esta Iglesia y este país. Tú, que exultaste por tu Hijo resucitado, llena nuestros corazones de su alegría. Queridos hermanos y hermanas, les deseo que difundan la alegría de Cristo: Isten éltessen! [¡Felicidades!]. Agradecido por estos días, los llevo en el corazón y les pido que recen por mí. Isten áld meg a magyart! [¡Que Dios bendiga a los húngaros!]

[00689-ES.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Agradeço ao Cardeal Erdő as suas palavras. Saúdo a Senhora Presidente, o Primeiro-Ministro e as Autoridades presentes. Aproximando-se agora o momento de regressar a Roma, desejo expressar-vos o meu reconhecimento, bem como aos irmãos bispos, aos sacerdotes, às consagradas e consagrados e a todo o amado povo húngaro pelo acolhimento e o afeto que senti nestes dias. E exprimo a minha gratidão a quantos vieram de longe e a quem trabalhou tanto e tão bem para esta visita. A todos digo: köszönöm, Isten fizesse [obrigado; Deus vos recompense]! Recordo de forma especial os doentes e idosos, as pessoas que não puderam estar aqui, quem se sente sozinho e quantos perderam a fé em Deus e a esperança na vida. Estou unido convosco, rezo por vós e vos abençoo.

Saúdo os Diplomatas e os irmãos e irmãs doutras Confissões cristãs. Obrigado pela vossa presença! E obrigado porque, neste país, diferentes Confissões e religiões se encontram e apoiam mutuamente. O cardeal Erdő disse que aqui se vive «na fronteira oriental do cristianismo ocidental, há mil anos». É belo que as fronteiras não representem confins que separam, mas áreas de contacto; e que os crentes em Cristo ponham em primeiro lugar a caridade que une e não as diferenças históricas, culturais e religiosas que dividem. Une-nos o Evangelho e é voltando lá, às fontes, que o caminho entre os cristãos continuará segundo a vontade de Jesus, Bom Pastor que nos quer unidos num só rebanho.

Voltemo-nos agora para Nossa Senhora. A Ela, Magna Domina Hungarorum, que invocais como Rainha e Padroeira, confio todos os húngaros. E a partir desta grande cidade e deste nobre país, quero colocar no seu Coração a fé e o futuro de todo o Continente Europeu, sobre o qual tenho pensado nestes dias, e de modo particular a causa da paz. Virgem Santa, olhai para os povos que mais sofrem. Olhai sobretudo para o vizinho povo ucraniano martirizado e para o povo russo, a Vós consagrados. Vós sois a Rainha da paz, infundi nos corações dos homens e dos líderes das nações o desejo de construir a paz, de dar às jovens gerações um futuro de esperança, não de guerra; um futuro cheio de berços, não de túmulos; um mundo de irmãos, não de muros.

Os nossos olhos pousam em Vós, Santa Mãe de Deus: depois da ressurreição de Jesus, acompanhastes os primeiros passos da comunidade cristã, tornando-a perseverante e concorde na oração (cf. At 1, 14). Assim mantivestes unidos os crentes, guardando a unidade com o vosso exemplo dócil e serviçal. Pedimo-Vos pela Igreja na Europa, para que volte a encontrar a força da oração, para que redescubra em Vós a humildade e a obediência, o ardor do testemunho e a beleza do anúncio. A Vós confiamos esta Igreja e este país. Vós, que exultastes pelo vosso Filho ressuscitado, enchei os nossos corações da vossa alegria.

Queridos irmãos e irmãs, isto vos desejo: que possais espalhar a alegria de Cristo: Isten éltessen [felicidades]! Agradecido por estes dias, levo-vos no coração e peço que rezeis por mim. Isten áld meg a magyart [Deus abençoe os húngaros]!

[00689-PO.01] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Dziękuję kardynałowi Erdő za jego słowa. Pozdrawiam Panią Prezydent, Pana Premiera i obecnych przedstawicieli władz. Ponieważ zbliża się już mój powrót do Rzymu, pragnę wyrazić im wdzięczność, a także moim braciom biskupom, kapłanom, osobom konsekrowanym oraz całemu umiłowanemu narodowi węgierskiemu za przyjęcie i miłość, jakich doświadczyłem w tych dniach. Dziękuję też tym, którzy przybyli tu z daleka, i tym, którzy tak wiele i tak dobrze pracowali na rzecz tej wizyty. Wszystkim mówię: köszönöm, Isten fizesse! [dziękuję, Bóg wam zapłać]. Szczególnie pamiętam o osobach chorych i starszych, o tych, którzy nie mogli tu być, o tych, którzy czują się samotni i o tych, którzy utracili wiarę w Boga i życiową nadzieję. Jestem blisko was, modlę się za was i was błogosławię.

Pozdrawiam dyplomatów oraz braci i siostry z innych wyznań chrześcijańskich. Dziękuję za waszą obecność i dziękuję również, bo w tym kraju różne wyznania i religie spotykają się i wzajemnie wspierają. Kardynał Erdő powiedział, że tutaj żyjemy „na wschodniej granicy zachodniego chrześcijaństwa od tysiąca lat”. To dobrze, że granice nie stanowią barier, które oddzielają, lecz obszary kontaktu; i że wierzący w Chrystusa stawiają na pierwszym miejscu miłość, która łączy, a nie różnice historyczne, kulturowe i religijne, które dzielą. Łączy nas Ewangelia i powracając do niej, do źródeł, niech droga między chrześcijanami będzie kontynuowana zgodnie z wolą Jezusa, Dobrego Pasterza, który chce nas zjednoczyć w jednej owczarni.

Zwracamy się teraz do Matki Bożej. Do Niej, Magna Domina Hungarorum, którą wzywacie jako Królową i Patronkę, zawierzam wszystkich Węgrów. A w tym wielkim mieście i w tym szlachetnym kraju, pragnę ponownie zawierzyć Jej sercu wiarę i przyszłość całego kontynentu europejskiego, o którym myślałem w tych dniach, a w szczególny sposób: sprawę pokoju. Święta Dziewico, spójrz na narody, które cierpią najbardziej. Spójrz przede wszystkim na sąsiedni udręczony naród ukraiński i naród rosyjski, poświęcone Tobie. Jesteś Królową Pokoju, zaszczep w sercach ludzi i przywódców narodów pragnienie budowania pokoju, aby dać młodym pokoleniom przyszłość nadziei, a nie wojny; przyszłość pełną kołysek, a nie grobów; świat braci, a nie murów.

Spoglądamy na Ciebie, Święta Boża Rodzicielko: po zmartwychwstaniu Jezusa towarzyszyłaś pierwszym krokom wspólnoty chrześcijańskiej, czyniąc ją wytrwałą i zgodną na modlitwie (por. Dz 1, 14). W ten sposób trzymałaś wiernych razem, strzegąc jedności własnym przykładem uległości i pragnienia służby. Prosimy Cię za Kościół w Europie, aby odnalazł siłę w modlitwie, aby odkrył w Tobie na nowo pokorę i posłuszeństwo, żarliwość świadectwa i piękno przepowiadania. Tobie zawierzamy ten Kościół i ten kraj. Ty, która rozradowałaś się swoim zmartwychwstałym Synem, napełnij nasze serca Jego radością. Drodzy bracia i siostry, tego wam życzę, abyście szerzyli radość Chrystusa: Isten éltessen! [Najlepsze życzenia!]. Wdzięczny za te dni, noszę was w sercu i proszę o modlitwę za mnie. Isten áld meg a magyart! [Niech Bóg błogosławi Węgrów!]

[00689-PL.01] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua araba

الزيارة الرسوليّة إلى هنغاريا

تحيّة قداسة البابا فرنسيس

في صلاة "إفرحي يا ملكة السّماء"

في ختام القدّاس الإلهيّ

في ساحة Kossuth Lajos في بودابست

الأحد 30 نيسان/أبريل 2023

أشكر الكاردينال إردو على كلماته. وأحيّي السّيّدة الرّئيسة والسّيّد رئيس الوزراء والسُّلطات الحاضرة هنا. الآن وأنا على وشك العودة إلى روما، أرغب أن أُعرب عن شُكري للإخوة الأساقفة، والكهنة، والمكرّسين والمكرّسات ولكلّ الشّعب الهنغاري الحبيب على الاستقبال والمودة التي شعرت بها في هذه الأيام. وأُعبّر عن شُكري للذين قدِموا إلى هنا من بعيد، والذين عملوا واجتهدوا كثيرًا لهذه الزّيارة. لكم جميعًا أقول: köszönöm, Isten fizesse! [شكرًا، كافأكم الله!] أتذكّر بشكلٍ خاصّ المرضى وكبار السّنّ، والذين لم يتمكّنوا من أن يكونوا هنا، والذين يشعرون بالوِحدة، والذين فقدوا الإيمان بالله والرّجاء في الحياة. أنا قريب منكم، وأصلّي من أجلكم وأبارككم.

أحيّي الدّبلوماسيّين والإخوة والأخوات من الطّوائف المسيحيّة الأخرى. شكرًا على حضوركم وشكرًا لأنّ الطّوائف والأديان المختلفة في هذا البلد تلتقي وتسند بعضها البعض. قال الكاردينال إردو إنّ النّاس هنا يعيشون "على الحدود الشّرقيّة للمسيحيّة الغربيّة منذ ألف سنة". جميلٌ أنّ الحدود لا تمثّل حدودًا فاصلة، بل هي مناطق تواصل، وأنّ المؤمنين بالمسيح يضعون في المقام الأوّل المحبّة التي توَحِّد وليس الاختلافات التّاريخيّة والثّقافيّة والدّينيّة التي تفرّق. الإنجيل يوحِّدنا، وإن رجعنا إلى هناك، إلى الينابيع، ستستمرّ المسيرة بين المسيحيّين بحسب إرادة يسوع، الرّاعي الصّالح الذي يريدنا موحّدين في قطيع واحد.

والآن لنتوجّه إلى سيّدتنا مريم العذراء. إليها، سيّدة هنغاريا، التي تدعونها ملكة وشفيعة، أوكل جميع الهنغاريّين. ومن هذه المدينة الكبيرة وهذا البلد النّبيل، أودّ أن أضع في قلبها إيمان ومستقبل القارّة الأوروبيّة بأكملها، التي فيها كنت أفكّر في هذه الأيّام الأخيرة، وبشكلٍ خاصّ في قضيّة السّلام. أيّتها البّتول القدّيسة، انظري إلى الشّعوب التي تتألّم كثيرًا. انظري قبل كلّ شيء إلى الشّعب الأوكراني المجاور والمعذّب وإلى الشّعب الرّوسي المكرّسَيْن لكِ. أنتِ ملكة السّلام، اغرسي في قلوب البشر وقادة الأمم الرّغبة في بناء السّلام، وفي إعطاء الأجيال الشّابّة مستقبل رجاء، لا حرب، ومستقبلًا مليئًا بأسِرَّةِ المولودين، لا بالقبور، وعالمَ إخوة، لا عالم جدران.

إنّا ننظر إليكِ، يا والدة الله القدّيسة: بعد قيامة يسوع من بين الأموات، رافقتِ الجماعة المسيحيّة في خطواتها الأولى، وجعلتها مثابرة ومتفقة في الصّلاة (راجع أعمال الرّسل 1، 14). وهكذا أبقيتِ المؤمنين معًا، وحافظتِ على الوَحدة بمثالك المُطيع والخدوم. نصلّي إليكِ من أجل الكنيسة في أوروبّا، حتّى تجد قوّة الصّلاة من جديد، وتكتشف فيكِ التّواضع والطّاعة من جديد، وحماسة الشّهادة، وجمال إعلان البشارة. إليكِ نوكل هذه الكنيسة وهذا البلد. أنتِ التي فرِحْتِ لابنك القائم من بين الأموات، املئي قلوبنا بفرحِهِ. أيّها الإخوة والأخوات الأعزّاء، أتمنّى لكم هذا، أن تنشروا فرح المسيح: Isten éltessen![تهانينا!]. أشكركم على هذه الأيّام، وأحملكم في قلبي وأطلب منكم أن تصلّوا من أجلي. Isten áld meg a magyart! [بارك الله الهنغاريّين!]

[00689-AR.01] [Testo originale: Italiano]

[B0321-XX.02]