Sala Stampa

www.vatican.va

Sala Stampa Back Top Print Pdf
Sala Stampa


Santa Messa in suffragio del defunto Sommo Pontefice Benedetto XVI e dei Cardinali e Vescovi defunti nel corso dell’anno, 03.11.2023


Omelia del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Alle ore 11.00 di questa mattina, all’Altare della Cattedra della Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Santa Messa in suffragio del defunto Sommo Pontefice Benedetto XVI e dei Cardinali e Vescovi defunti nel corso dell’anno.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Vangelo:

Omelia del Santo Padre

Gesù sta per entrare a Nain, i discepoli e «una grande folla» camminano con Lui (cfr Lc 7,11). Mentre è vicino alla porta della città, un altro corteo è in marcia, ma in direzione opposta: sta uscendo per seppellire il figlio unico di una madre rimasta vedova. E, dice il Vangelo: «Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione» (Lc 7,13). Gesù vede e si lascia prendere da compassione. Benedetto XVI, che oggi ricordiamo insieme ai Cardinali e ai Vescovi defunti nel corso dell’anno, nella sua prima Enciclica scrisse che il programma di Gesù è «un cuore che vede» (Deus caritas est, 31). Quante volte ci ha ricordato che la fede non è anzitutto un’idea da capire o una morale da assumere, ma una Persona da incontrare, Gesù Cristo: il suo cuore batte forte per noi, il suo sguardo s’impietosisce davanti alle nostre sofferenze.

Il Signore si ferma di fronte al dolore di quella morte. È interessante che proprio in questa occasione, per la prima volta, il Vangelo di Luca attribuisce a Gesù il titolo di “Signore”: «il Signore fu preso da grande compassione». È chiamato Signore – cioè Dio, che ha la signoria su tutto – proprio nell’atto della sua compassione per una madre vedova che ha perso, con l’unico figlio, il motivo per vivere. Ecco il nostro Dio, la cui divinità risplende a contatto con le nostre miserie, perché il suo cuore è compassionevole. La risurrezione di quel figlio, il dono della vita che vince la morte, scaturisce proprio da qui: dalla compassione del Signore, che si commuove di fronte al nostro male estremo, la morte. Quanto è importante comunicare questo sguardo di compassione a chi vive il dolore per la morte dei propri cari!

La compassione di Gesù ha una caratteristica: è concreta. Egli, dice il Vangelo, si “avvicina e tocca la bara” (cfr Lc 7,14). Toccare la bara di un morto era inutile; a quel tempo, inoltre, era ritenuto un gesto impuro, che contaminava chi lo compiva. Ma Gesù non bada a questo, la sua compassione azzera le distanze e lo porta a farsi vicino. Questo è lo stile di Dio, fatto di vicinanza, compassione e tenerezza. E di poche parole. Cristo non fa prediche sulla morte, ma dice a quella madre una cosa sola: «Non piangere!» (Lc 7,13). Perché? È forse sbagliato piangere? No. Gesù stesso piange nei Vangeli. Ma a quella mamma dice: Non piangere, perché con il Signore le lacrime non durano per sempre, hanno fine. Egli è il Dio che, come profetizza la Scrittura, «eliminerà la morte» e «asciugherà le lacrime su ogni volto» (Is 25,8; cfr Ap 21,4). Ha fatto sue le nostre lacrime per toglierle a noi.

Ecco la compassione del Signore, che arriva a rianimare quel giovane figlio. Gesù lo fa, diversamente da altri miracoli, senza nemmeno chiedere alla madre di avere fede. Perché un prodigio così straordinario e tanto raro? Perché qui sono coinvolti l’orfano e la vedova, che la Bibbia indica, insieme al forestiero, come i più soli e abbandonati, che non possono riporre fiducia in nessun altro che non sia Dio. La vedova, l’orfano, il forestiero. Sono perciò le persone più intime e care al Signore. Non si può essere intimi e cari a Dio ignorando loro, che godono della sua protezione e della sua predilezione, e che ci accoglieranno in cielo. La vedova, l’orfano e il forestiero.

Guardando a loro, ricaviamo un insegnamento importante, che condenso nella seconda parola di oggi: umiltà. L’orfano e la vedova sono infatti gli umili per eccellenza, coloro che, riponendo ogni speranza nel Signore e non in sé stessi, hanno spostato il centro della vita in Dio: non fanno conto sulle proprie forze, ma su di Lui, che si prende cura di loro. Costoro, che rifiutano ogni presunzione di autosufficienza, si riconoscono bisognosi di Dio e si fidano di Lui, loro sono gli umili. E sono questi poveri in spirito a rivelarci la piccolezza tanto gradita al Signore, la via che conduce al Cielo. Dio cerca persone umili, che sperano in Lui, non in sé stessi e nei propri piani. Fratelli e sorelle, questa è l’umiltà cristiana: non è una virtù fra le altre, ma la disposizione di fondo della vita: credersi bisognosi di Dio e fargli spazio, riponendo ogni fiducia in Lui. Questa è l’umiltà cristiana.

Dio ama l’umiltà perché gli permette di interagire con noi. Di più, Dio ama l’umiltà perché è Lui stesso umile. Scende verso di noi, si abbassa; non s’impone, lascia spazio. Dio non solo è umile, è umiltà. “Tu sei umiltà, Signore”, così pregava san Francesco di Assisi (cfr Lodi, 4: FF 261). Pensiamo al Padre, il cui nome è tutto un riferimento al Figlio anziché a sé stesso; e al Figlio, il cui nome è tutto relativo al Padre. Dio ama coloro che si decentrano, che non sono il centro di tutto, ama gli umili appunto: costoro gli assomigliano più di tutti. Ecco perché, come dice Gesù, «chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11). E mi piace ricordare quelle parole iniziali di Papa Benedetto: «umile lavoratore nella vigna del Signore». Sì, il cristiano, soprattutto il Papa, i Cardinali, i Vescovi, sono chiamati a essere umili lavoratori: a servire, non a essere serviti; a pensare, prima che ai propri frutti, a quelli della vigna del Signore. E quanto è bello rinunciare a sé stessi per la Chiesa di Gesù!

Fratelli, sorelle, chiediamo a Dio uno sguardo compassionevole e un cuore umile. Non stanchiamoci di chiederlo, perché è sulla via della compassione e dell’umiltà che il Signore ci dona la sua vita, che vince la morte. E preghiamo per i nostri cari fratelli defunti. Il loro cuore è stato pastorale, compassionevole; e umile, perché il senso della loro vita è stato il Signore. In Lui trovino l’eterna pace. Gioiscano con Maria, che il Signore ha innalzato guardandone l’umiltà (cfr Lc 1,48).

[01672-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua francese

Jésus est sur le point d'entrer à Naïm, les disciples et « une grande foule » marchent avec Lui (cf. Lc 7,11). Alors qu'il est près de la porte de la ville, un autre cortège est en marche, mais dans la direction opposée : il sort pour enterrer le fils unique d'une mère veuve. Et l'Évangile dit qu’en : «Voyant celle-ci, le Seigneur fut saisi de compassion» (Lc 7,13). Jésus voit et se laisse saisir de compassion. Benoît XVI, dont nous nous souvenons aujourd'hui avec les cardinaux et les évêques décédés au cours de l'année, a écrit dans sa première encyclique que le programme de Jésus est « un cœur qui voit » (Deus caritas est, n. 31). Combien de fois ne nous a-t-il pas rappelé que la foi n'est pas avant tout une idée à comprendre ou une morale à assumer, mais une Personne à rencontrer, Jésus-Christ : son cœur bat fort pour nous, son regard s’apitoie sur nos souffrances.

Le Seigneur s'arrête devant la douleur de cette mort. Il est intéressant que précisément à cette occasion, pour la première fois, l'Évangile de Luc attribue à Jésus le titre de "Seigneur" : « le Seigneur fut saisi de compassion ». Il est appelé Seigneur - c'est-à-dire Dieu, qui a la seigneurie sur tout - précisément dans son acte de compassion pour une mère veuve qui a perdu, avec son fils unique, la raison de vivre. Voilà notre Dieu, dont la divinité resplendit au contact de nos misères, parce que son cœur est compatissant. La résurrection de ce fils, le don de la vie qui vainc la mort, découle précisément d’ici : de la compassion du Seigneur, qui s'émeut face à notre mal extrême, la mort. Combien il est important de communiquer ce regard de compassion à ceux qui vivent la douleur de la mort de leurs proches !

La compassion de Jésus a une caractéristique : elle est concrète. L'Évangile dit qu'il " s’approche et touche le cercueil" (cf. Lc 7,14). Toucher le cercueil d'un mort était inutile ; à l'époque, en outre, c'était considéré comme un geste impur, qui souillait celui qui l'accomplissait. Mais Jésus n’y fait pas attention, sa compassion abolit les distances et le porte à se faire proche. Cela c’est le style de Dieu, fait de proximité, de compassion et de tendresse. Et de peu de mots. Le Christ ne prêche pas sur la mort, mais il dit une seule chose à cette mère : « Ne pleure pas ! » (Lc 7,13). Pourquoi ? Serait-ce un mal de pleurer? Non, Jésus lui-même a pleuré dans les Évangiles. Mais à cette mère, il dit : Ne pleure pas, parce qu'avec le Seigneur les larmes ne durent pas toujours, elles ont une fin. Il est le Dieu qui, comme le prophétise l'Écriture, « fera disparaître la mort » et «essuiera les larmes sur tous les visages » (Is 25,8 ; cf. Ap 21,4). Il a fait siennes nos larmes pour nous en libérer.

Voilà la compassion du Seigneur, qui parvient à redonner vie à ce jeune fils. Jésus le fait, contrairement à d'autres miracles, sans même demander à la mère d'avoir la foi. Pourquoi un prodige aussi extraordinaire et aussi rare ? Parce qu'il s'agit ici de l'orphelin et de la veuve, que la Bible désigne, avec l'étranger, comme les plus seuls et les plus abandonnés, qui ne peuvent placer leur confiance en personne si ce n’est Dieu. La veuve, l'orphelin et l'étranger. Ils sont donc les plus intimes et les plus chers au Seigneur. On ne peut pas être intime et cher à Dieu en les ignorant, eux qui bénéficient de sa protection et de sa prédilection, et qui nous accueilleront au ciel. La veuve, l'orphelin et l'étranger.

En les observant, nous tirons une leçon importante, que je résume dans le deuxième mot d'aujourd'hui : humilité. L'orphelin et la veuve sont en effet les humbles par excellence, ceux qui, mettant toute leur espérance dans le Seigneur et non en eux-mêmes, ont déplacé le centre de leur vie en Dieu : ils ne s'appuient pas sur leurs propres forces, mais sur Lui, qui prend soin d'eux. Ceux-là qui rejettent toute présomption d’autosuffisance, se reconnaissent nécessiteux de Dieu et se confient à Lui, ils sont les humbles. Et ce sont ces pauvres en esprit qui nous révèlent la petitesse qui plaît tant au Seigneur, le chemin qui mène au Ciel. Dieu recherche des personnes humbles, qui espèrent en Lui, et non en elles-mêmes et en leurs propres projets. Frères et sœurs, c'est cela l'humilité chrétienne : ce n'est pas une vertu parmi d'autres, mais la disposition de base de la vie : se croire dans le besoin de Dieu et lui faire de la place, mettre toute sa confiance en lui. C’est cela l'humilité chrétienne.

Dieu aime l'humilité parce qu'elle lui permet d'interagir avec nous. De plus, Dieu aime l'humilité parce qu'Il est Lui-même humble. Il descend vers nous, il s'abaisse ; il ne s'impose pas, il laisse de la place. Non seulement Dieu est humble, il est humilité. " Tu es humilité, Seigneur ", ainsi priait saint François d'Assise (cf. Louanges de Dieu, 4 : FF 261). Pensons au Père, dont le nom est tout une référence au Fils plutôt qu'à Lui-même, et au Fils, dont le nom est tout relatif au Père. Dieu aime ceux qui se décentrent, qui ne sont pas au centre de tout, il aime justement les humbles : ils lui ressemblent plus que quiconque. C'est pourquoi, comme le dit Jésus, «qui s’abaisse sera élevé » (Lc 14, 11). Et j'aime à rappeler ces premiers mots du Pape Benoît : « humble ouvrierdans la vigne du Seigneur ». Oui, le chrétien, en particulier le Pape, les Cardinaux et les Évêques, sont appelés à être d'humbles ouvriers : à servir et non à être servis ; à penser, avant leurs propres fruits, à ceux de la vigne du Seigneur. Et comme il est beau de renoncer à soi-même pour l'Église de Jésus !

Frères, sœurs, demandons à Dieu un regard compatissant et un cœur humble. Ne nous lassons pas de le demander, car c'est sur le chemin de la compassion et de l'humilité que le Seigneur nous donne sa vie, qu’Il triomphe de la mort. Et prions pour nos chers frères défunts. Leurs cœurs ont été pastoraux, compatissants et humbles, car le sens de leur vie a été le Seigneur. En Lui, qu'ils trouvent la paix éternelle. Qu'ils se réjouissent avec Marie, que le Seigneur a élevée en voyant son humilité (cf. Lc 1, 48)

[01672-FR.02] [Texte original: Italien]

Traduzione in lingua inglese

Jesus is about to enter Nain; the disciples and “a great crowd” are walking with him (cf. Lk 7:11). As he approaches the city gate, another procession is setting out, but in the opposite direction: it is going to bury the only son of a widowed mother. The Gospel tells us that, “when the Lord saw her, he had compassion” (Lk 7:13). Jesus saw what happened and he was moved by compassion. Benedict XVI, whom we remember today, together with the Cardinals and Bishops who died in the past year, wrote in his first Encyclical that the programme of Jesus is “a heart that sees” (Deus Caritas Est, 31). How many times did he keep reminding us that faith is not primarily an idea to be understood or a moral precept to be followed, but a person to be encountered. That person is Jesus Christ, whose heart beats with love for us, whose eyes look with pity upon our suffering.

The Lord halts before the tragedy of death. It is significant that this is the first time that Luke’s Gospel calls Jesus “Lord”: “the Lord was moved with great compassion”. He is called Lord – the God who exercises lordship over all things – in the very act of showing compassion for a widowed mother who lost, along with her only son, her reason for living. Here we see our God, whose divinity shines forth in contact with our sorrow and grief, for his is a heart full of compassion. The raising of that young man, the gift of life that overcomes death, has its source precisely there, in the compassion of the Lord, who is moved by death, the greatest cause of our suffering. How important it is to communicate that same look of compassion to all those who grieve for the death of their loved ones!

Jesus’ compassion is concrete. The Gospel tells us that he “came forward and touched the bier” (cf. Lk 7:14). He did not have to do that, and in any event, in those days, touching the bier of a dead person was considered something unclean, defiling those who did so. Jesus, however, cares nothing about that; his compassion makes him reach out to all those who suffer. That is God’s “style”, one of closeness, compassion and tenderness. And one of few words. Christ does not start preaching about death, but simply tells the young man’s mother: “Do not weep!” (Lk 7:13). Why? Is it wrong to weep? No, Jesus himself weeps in the Gospels. He says to the mother, “Do not weep”, because with the Lord tears do not last forever; they have an end. Jesus is the God who, as Scripture prophesies, will “swallow up death” and “wipe away tears from all faces” (Is 25:8; cf. Rev 21:4). He has made our tears his own in order to take them away.

Here, then, we see the Lord’s compassion, which leads him to raise that young son. Yet here, unlike other miracles he performed, Jesus does not first ask the mother to have faith. Why this extraordinary and unusual miracle? Because it has to do with an orphan and a widow, those whom the Bible, along with strangers, considers most alone and forsaken, having no one else to trust but God. The widow, the orphan, the stranger: these are the people closest and dearest to the Lord. We cannot be close and dear to God if we ignore those who enjoy his protection and preferential love, for one day they will be the ones to welcome us to heaven: the widow, the orphan, the stranger.

Considering them too, we discover another important point, which I would condense into today’s second word: humility. For the orphan and the widow are “the humble” par excellence: those who, placing all their hope in the Lord and not in themselves, have made God the centre of their lives. They no longer rely on their own strength, but on him and his unfailing care. Rejecting any presumption of self-sufficiency, they recognize their need for God and put their trust in him. It is the humble, the poor in spirit, who reveal to us the “littleness” so pleasing to the Lord, the path that leads to heaven. God seeks the humble, those who hope in him and not in themselves and their own plans. Dear brothers and sisters, this is Christian humility, which is not simply one virtue among others, but the basic disposition of life: believing ourselves to be in need of God, making room for him and putting all our trust in him. This is Christian humility.

God loves humility because it permits him to interact with us. Even more, God loves humility because he himself is humble. He comes down to us; he lowers himself; he does not impose himself; he makes room for us. God is not only humble; he is humility itself. “You are humility, Lord” was the prayer of Saint Francis of Assisi (Cf. Lodi, 4: FF 261). We think of the Father, whose name is entirely a reference to the Son rather than to himself, and of the Son, whose name is completely in relation to the Father. God loves those who do not put themselves at the centre: the humble, who most resemble him. That is why, as Jesus says, “those who humble themselves will be exalted” (Lk 14:11). I like to recall the very first words with which Pope Benedict described himself following his election: “a humble labourer in the vineyard of the Lord.” Indeed, Christians, especially the Pope, the Cardinals and the Bishops, are called to be humble labourers: to serve, not to be served and to put the fruits of the Lord’s vineyard before their advantage. What a fine thing it is to renounce ourselves for the Church of Jesus!

Brothers and sisters, let us ask God to grant us a compassionate gaze and a humble heart. May we never tire of asking this, for it is on the path of compassion and humility that the Lord gives us his life, which triumphs over death. Let us pray for our beloved deceased brethren. Their hearts were pastoral, compassionate and humble, for the Lord was the centre of their lives. In him may they find eternal peace. May they rejoice with Mary, whom the Lord raised up by looking upon her humility (cf. Lk 1:48).

[01672-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua tedesca

Jesus ist auf dem Weg nach Naïn, die Jünger und »eine große Volksmenge« gehen mit ihm (vgl. Lk 7,11). Während er sich dem Stadttor nähert, ist ein anderer Zug unterwegs, allerdings in die entgegengesetzte Richtung: Er schreitet hinaus, um den einzigen Sohn einer Mutter zu begraben, die Witwe ist. Und im Evangelium heißt es: »Als der Herr die Frau sah, hatte er Mitleid mit ihr« (Lk 7,13). Jesus sieht und lässt sich von Mitleid ergreifen. Benedikt XVI., dessen wir heute zusammen mit den in diesem Jahr verstorbenen Kardinälen und Bischöfen gedenken, hat in seiner ersten Enzyklika geschrieben, das Programm Jesu sei »das sehende Herz« (Deus caritas est, 31). Wie oft hat er uns daran erinnert, dass der Glaube nicht in erster Linie eine Idee ist, die man verstehen, oder eine Moral, die man sich zu eigen machen kann, sondern eine Person, der wir begegnen sollen, Jesus Christus: Sein Herz schlägt für uns höher, sein Blick erbarmt sich angesichts unserer Leiden.

Der Herr hält angesichts des Schmerzes über jenen Tod inne. Es ist bemerkenswert, dass das Lukasevangelium Jesus gerade bei dieser Gelegenheit zum ersten Mal mit dem Titel „Herr“ bezeichnet: „Der Herr hatte Mitleid“. Er wird gerade im Akt seines Mitgefühls für eine verwitwete Mutter, die mit ihrem einzigen Sohn den Grund zum Leben verloren hatte, Herr genannt – also Gott, der die Herrschaft über alles hat. Dies ist unser Gott, dessen Göttlichkeit in der Berührung mit unserem Elend aufleuchtet, weil sein Herz barmherzig ist. Die Auferweckung jenes Sohnes, das Geschenk des Lebens, das den Tod besiegt, kommt genau von dort: aus dem Mitgefühl des Herrn, der angesichts unseres größten Übels, des Todes, tief betroffen ist. Wie wichtig ist es, diesen Blick des Mitgefühls denjenigen weiterzugeben, die wegen des Todes eines geliebten Menschen Schmerz empfinden!

Das Mitgefühl Jesu hat eine Besonderheit: Es ist konkret.  So heißt es im Evangelium: »Er trat heran und berührte die Bahre« (Lk 7,14). Die Bahre eines Toten zu berühren, war nutzlos. Außerdem galt das zu jener Zeit als eine unreine Geste, die denjenigen, der sie ausführte, unrein machte. Aber Jesus achtet nicht darauf, sein Mitgefühl beseitigt die Distanz und drängt ihn dazu, nahe zu sein. Das ist der Stil Gottes, der aus Nähe, Mitgefühl und Zärtlichkeit besteht. Und aus wenigen Worten. Christus predigt nicht über den Tod, sondern sagt nur eines zu dieser Mutter: »Weine nicht!« (Lk 7,13). Warum? Ist es etwa falsch, zu weinen? Nein. Jesus selbst weint in den Evangelien. Aber zu jener Mutter sagt er: Weine nicht, weil die Tränen mit dem Herrn nicht ewig anhalten, sie haben ein Ende. Er ist der Gott, der, wie die Heilige Schrift prophezeit, »den Tod für immer verschlungen« hat und »die Tränen von jedem Gesicht abwischen« wird (Jes 25,8; vgl. Offb 21,4). Er hat sich unsere Tränen zu eigen gemacht, um sie von uns zu nehmen.

Dies ist das Erbarmen des Herrn, das so weit geht, jenem jungen Sohn das Leben zurückzugeben. Jesus tut dies im Gegensatz zu anderen Wundern, ohne auch nur von der Mutter zu verlangen, Glauben zu haben. Warum ein so außergewöhnliches und so seltenes Wunder? Weil hier die Waise und die Witwe betroffen sind, die die Bibel zusammen mit dem Fremden als die einsamsten und verlassensten Menschen bezeichnet, die ihr Vertrauen auf niemand anderen als Gott setzen können. Die Witwe, die Waise, der Fremde. Sie sind also die Menschen, die dem Herrn am nächsten und am liebsten sind. Man kann Gott nicht nahe und teuer sein, wenn man diejenigen außer Acht lässt, welche seinen Schutz und seine Vorliebe genießen und die uns im Himmel willkommen heißen werden. Die Witwe, die Waise, der Fremde.

Indem wir auf sie blicken, lernen wir etwas Wichtiges, das ich im zweiten Wort des heutigen Tages zusammenfasse: Demut. Die Waise und die Witwe sind nämlich die Demütigen schlechthin, diejenigen, die alle Hoffnung auf den Herrn und nicht auf sich selbst setzen und somit den Mittelpunkt ihres Lebens zu Gott hin verlagert haben: Sie zählen nicht auf ihre eigenen Kräfte, sondern auf ihn, der für sie sorgt. Diese Menschen, die jegliche anmaßende Selbstgenügsamkeit ablehnen, erkennen, dass sie auf Gott angewiesen sind, und sie vertrauen auf ihn, sie sind die Demütigen. Und es sind diese Armen im Geiste, die uns die Kleinheit offenbaren, die dem Herrn so sehr wohlgefällig ist, den Weg, der zum Himmel führt. Gott sucht demütige Menschen, die auf ihn hoffen und nicht auf sich selbst und ihre eigenen Pläne. Brüder und Schwestern, das ist die christliche Demut: Sie ist nicht eine Tugend unter anderen, sondern die grundlegende Haltung des Lebens: glauben, dass wir auf Gott angewiesen sind und ihm Raum geben, indem wir unser ganzes Vertrauen in ihn setzen. Das ist die christliche Demut.

Gott liebt die Demut, weil sie es ihm ermöglicht, mit uns im Austausch zu stehen. Mehr noch, Gott liebt die Demut, weil er selbst demütig ist. Er kommt zu uns herab, er erniedrigt sich; er drängt sich nicht auf, er lässt Raum. Gott ist nicht nur demütig, er ist Demut. „Du bist die Demut, Herr“, betete der heilige Franz von Assisi (vgl. Lobpreis Gottes 4: Franziskus-Quellen 37). Denken wir an den Vater, dessen Name eine einzige Bezugnahme auf den Sohn ist und nicht auf sich selbst; und an den Sohn, dessen Name sich ganz auf den Vater bezieht. Gott liebt diejenigen, die von sich selber absehen, die nicht der Mittelpunkt von allem sind, er liebt die Demütigen eben: Diese sind ihm ähnlicher als alle anderen. Deshalb gilt, wie Jesus sagt: »Wer sich selbst erniedrigt, wird erhöht werden« (Lk 14,11). Und ich erinnere gern an jene ersten Worte von Papst Benedikt: »demütiger Arbeiter im Weinberg des Herrn«. Ja, die Christen, insbesondere der Papst, die Kardinäle, die Bischöfe, sind aufgerufen, demütige Arbeiter zu sein: zu dienen, nicht sich dienen zu lassen; zuerst an die Früchte des Weinbergs des Herrn zu denken, statt an die eigenen. Und wie schön ist es, sich selbst zugunsten der Kirche Jesu aufzugeben!

Brüder und Schwestern, bitten wir Gott um einen barmherzigen Blick und um ein demütiges Herz. Lasst uns nicht müde werden, darum zu bitten, denn auf dem Weg des Mitgefühls und der Demut schenkt uns der Herr sein Leben, das den Tod besiegt. Und lasst uns für unsere lieben verstorbenen Brüder beten. Ihr Herz war pastoral, barmherzig und demütig, denn der Herr war der Sinn ihres Lebens. Mögen sie in ihm den ewigen Frieden finden. Mögen sie sich mit Maria freuen, die der Herr erhöht hat, als er auf ihre Demut blickte (vgl. Lk 1,48).

[01672-DE.02] [Originalsprache: Italienisch]

Traduzione in lingua spagnola

Jesús estaba a punto de entrar en Naím, los discípulos y «una gran multitud» caminaban con Él (cf. Lc 7,11). Cuando se acercaba a la puerta de la ciudad, otro cortejo marchaba en dirección opuesta; salía para enterrar al hijo único de una madre que se había quedado viuda. Y, dice el Evangelio: «Al verla, el Señor se conmovió» (Lc 7,13). Jesús ve y se deja conmover. Benedicto XVI, que hoy recordamos junto a los cardenales y obispos difuntos durante el año, en su primera Encíclica escribió que el programa de Jesús es un «corazón que ve» (Deus caritas est, 31). Cuántas veces nos ha recordado que la fe no es en primer lugar una idea que debamos entender o una moral que debamos asumir, sino una Persona que debemos encontrar, Jesucristo. Su corazón late con fuerza por nosotros, su mirada se apiada de nuestros sufrimientos.

El Señor se detiene ante el dolor de esa muerte. Es interesante que precisamente en esta ocasión, por primera vez, el Evangelio de Lucas atribuye a Jesús el título de “Señor”: «el Señor se conmovió». Se le llama Señor —es decir, Dios, que domina todo— precisamente cuando se compadece de una madre viuda que ha perdido, con su único hijo, el motivo de vivir. Este es nuestro Dios, cuya divinidad resplandece al tocar nuestras miserias, porque su corazón es compasivo. La resurrección de aquel hijo, el don de la vida que vence a la muerte, brota precisamente de aquí, de la compasión del Señor que se conmueve ante nuestro mal extremo, la muerte. Qué importante es comunicar esta mirada de compasión a quien vive el dolor de la muerte de sus seres queridos.

La compasión de Jesús tiene una característica, es concreta. Él, dice el Evangelio, «se acercó y tocó el féretro» (Lc 7,14). Tocar el féretro de un muerto era inútil; en ese tiempo, además, se consideraba un gesto impuro, que contaminaba a quien lo hacía. Pero Jesús no repara en esto, su compasión elimina las distancias y lo lleva a hacerse cercano. Este es el estilo de Dios, hecho de cercanía, compasión y ternura. Y de pocas palabras. Cristo no da sermones sobre la muerte, sólo le dice a esa madre una cosa: «No llores» (Lc 7,13). ¿Por qué? ¿Está mal llorar? No, Jesús mismo llora en los Evangelios. Pero a esa madre le dice: No llores, porque con el Señor las lágrimas no duran para siempre, se terminan. Él es el Dios que, como profetiza la Escritura, «destruirá la Muerte» y «enjugará las lágrimas de todos los rostros» (Is 25,8; cf. Ap 21,4). Se ha apropiado de nuestras lágrimas para apartarlas de nosotros.

Esta es la compasión del Señor, que llega a reanimar a aquel hijo. Jesús lo hace, a diferencia de otros milagros, sin siquiera pedirle a la madre que tenga fe. ¿Por qué un prodigio tan extraordinario y raro? Porque aquí están implicados el huérfano y la viuda, que la Biblia indica, junto al forastero, como los más solos y abandonados, que no pueden poner su confianza en nadie más que en Dios. La viuda, el huérfano, el forastero. Son por tanto las personas más íntimas y queridas para el Señor. No se puede ser íntimos y queridos para el Señor ignorándolos, pues gozan de su protección y de su predilección, y nos acogerán en el cielo. La viuda, el huérfano y el forastero.

Dirigiendo hacia ellos nuestra mirada, obtenemos una lección importante, que condenso en la segunda palabra de hoy: humildad. El huérfano y la viuda son de hecho los humildes por excelencia, aquellos que, depositando toda su esperanza en el Señor y no en sí mismos, han situado el centro de la vida en Dios. No ponen su confianza en sus propias fuerzas, sino en Él, que se hace cargo de ellos. Los que rechazan toda presunción de autosuficiencia, se reconocen necesitados de Dios y se abandonan en Él, ellos son los humildes. Y son estos pobres en espíritu los que nos revelan la pequeñez que al Señor agrada, el camino que conduce al Cielo. Dios busca personas humildes, que esperan en Él, no en sí mismos y en sus propios planes. Hermanos y hermanas, esta es la humildad cristiana. No es una virtud entre otras, sino la actitud fundamental de nuestra vida, la de creernos necesitados de Dios y dejarle lugar, poniendo en Él toda nuestra confianza. Esta es la humildad cristiana.

Dios ama la humildad porque le permite interactuar con nosotros. Más aún, Dios ama la humildad porque Él mismo es humilde. Él desciende hasta nosotros, se abaja, no se impone, deja espacio. Dios no sólo es humilde, es humildad. “Tú eres humildad, Señor”, así rezaba san Francisco de Asís (cf. Alabanzas de Dios Altísimo, 4). Pensemos en el Padre, cuyo nombre está totalmente referido al Hijo, y no a sí mismo; y al Hijo, cuyo nombre está todo él en relación al Padre. Dios ama a aquellos que no están centrados en sí mismos, que no son el centro de todo, ama precisamente a los humildes. Aquellos que se le parecen más que ninguno. Por esta razón, como dice Jesús, «el que se humilla será ensalzado» (Lc 14,11). Y me gusta recordar aquellas palabras iniciales del Papa Benedicto: «humilde trabajador de la viña del Señor» (Urbi et Orbi, 19 abril 2005). Sí, el cristiano, sobre todo el Papa, los cardenales, los obispos, están llamados a ser humildes trabajadores: a servir, no a ser servidos; a pensar, antes que en sus propios beneficios, en los de la viña del Señor. Y qué hermoso es renunciar a sí mismos por la Iglesia de Jesús.

Hermanos, hermanas, pidamos a Dios una mirada compasiva y un corazón humilde. No nos cansemos de pedírselo, porque es en el camino de la compasión y de la humildad que el Señor nos da su vida, que vence a la muerte. Y recemos por nuestros queridos hermanos difuntos. Sus corazones han sido pastorales, compasivos y humildes, porque el sentido de sus vidas ha sido el Señor. Que en Él encuentren la paz eterna. Que se alegren con María, a quien el Señor ha ensalzado mirando su humildad (cf. Lc 1,48).

[01672-ES.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua portoghese

Jesus está prestes a entrar em Naim; caminham com Ele os discípulos e «uma grande multidão» (Lc 7, 11). Quando chegam perto da porta da cidade, embatem noutro cortejo que segue em direção oposta: está a sair para sepultar o filho único duma mãe que ficara viúva. E o Evangelho diz: «Vendo-a, o Senhor compadeceu-Se» (Lc 7, 13). Jesus vê-a e enche-Se de compaixão. Bento XVI, que hoje recordamos juntamente com os Cardeais e Bispos falecidos durante o ano transcorrido, escreveu na sua primeira Encíclica que o programa de Jesus é «um coração que vê» (Deus caritas est, 31). Quantas vezes nos recordou que a fé não é, primariamente, uma ideia a compreender nem uma moral a abraçar, mas uma Pessoa a encontrar: Jesus Cristo. O coração d’Ele bate forte por nós, o seu olhar condói-se à vista dos nossos sofrimentos.

O Senhor detém-Se diante da angústia por aquela morte. É interessante que pela primeira vez, precisamente nesta ocasião, o Evangelho de Lucas atribui a Jesus o título de «Senhor»: «o Senhor compadeceu-Se». Chama-O Senhor (isto é, Deus que tem o domínio sobre tudo) precisamente no momento da sua compaixão por uma mãe viúva que, ao ficar sem o único filho, perdeu a razão de viver. Assim é o nosso Deus, cuja divindade resplandece no contacto com as nossas misérias, porque o seu coração é compassivo. O dom da vida que vence a morte – a ressurreição daquele filho – brota precisamente daqui: da compaixão do Senhor, que Se comove à vista do nosso mal extremo, a morte. Como é importante comunicar este olhar de compaixão a quem vive na angústia pela morte dos seus entes queridos!

A compaixão de Jesus tem uma caraterística: é concreta. Diz o Evangelho que Ele Se aproxima e toca no caixão (cf. Lc 7, 14). Tocar no caixão dum morto era inútil; além disso, naquele tempo, era considerado um gesto impuro, que contaminava quem o fazia. Mas Jesus não presta atenção a isso, a sua compaixão elimina distâncias e leva-O a aproximar-Se. Este é o estilo de Deus, feito de proximidade, compaixão e ternura; e de poucas palavras. Cristo não prega sobre a morte, mas diz só uma coisa àquela mãe: «Não chores» (Lc 7, 13). Porquê? Porventura é errado chorar? Não; o próprio Jesus chora nos Evangelhos. Mas àquela mãe diz «não chores», porque, com o Senhor, as lágrimas não duram para sempre, têm fim. Ele é o Deus que, como profetiza a Escritura, «eliminará a morte» e «enxugará as lágrimas de todas as faces» (Is 25, 8; cf. Ap 21, 4). Assumiu as nossas lágrimas, para retirá-las de nós.

Aqui está a compaixão do Senhor, que chega ao ponto de reanimar aquele filho jovem. E Jesus fá-lo dum modo diverso doutros milagres, ou seja, sem pedir sequer à mãe que tenha fé. Porquê um prodígio assim extraordinário e tão raro? Porque aqui estão envolvidos o órfão e a viúva, que a Bíblia indica, juntamente com o estrangeiro, como as pessoas mais sós e abandonadas, que não podem confiar em mais ninguém que não seja Deus. Por isso a viúva, o órfão e o estrangeiro são as pessoas mais íntimas e queridas do Senhor. E não podemos ser íntimos e queridos de Deus, ignorando aqueles que gozam da sua proteção e predileção e que nos hão de acolher no Céu: a viúva, o órfão e o estrangeiro.

Olhando para eles, deduzimos um ensinamento importante, que condenso na segunda palavra de hoje: humildade. O órfão e a viúva são realmente os humildes por excelência, aqueles que, colocando toda a esperança no Senhor e não em si mesmos, transferiram o centro da sua vida para Deus: contam, não sobre as suas próprias forças, mas sobre o Senhor que cuida deles. Aqueles que rejeitam toda a presunção de autossuficiência, reconhecem-se necessitados de Deus e fiam-se d’Ele; eles são os humildes. E são estes pobres em espírito que nos revelam a pequenez tão grata ao Senhor, o caminho que conduz ao Céu. Deus procura pessoas humildes, que esperam n’Ele, e não em si mesmas nem nos próprios planos. Irmãos e irmãs, esta é a humildade cristã. Não se trata duma virtude entre outras, mas da predisposição basilar da vida: crer-se necessitado de Deus e dar-Lhe espaço, depositando n’Ele toda a confiança. Esta é a humildade cristã.

Deus ama a humildade, porque Lhe permite interagir connosco. Mais, Deus ama a humildade, porque Ele mesmo é humilde. Desce até nós, abaixa-Se; não Se impõe, deixa espaço. Deus não só é humilde; é humildade. «Vós sois humildade, Senhor»: assim rezava São Francisco de Assis (cf. Lodi, 4: FF 261). Pensemos no Pai, cujo nome é inteiramente uma referência ao Filho e não a Si mesmo; e ao Filho, cujo nome é inteiramente relativo ao Pai. Deus ama aqueles que se descentralizam, que não são o centro de tudo, ama precisamente os humildes: estes assemelham-se a Ele mais do que todos os outros. Por isso mesmo, como diz Jesus, «o que se humilha será exaltado» (Lc 14, 11). Gosto de recordar as palavras com que se apresentou, ao início, o Papa Bento XVI: «humilde trabalhador na vinha do Senhor». Sim, os cristãos, sobretudo o Papa, os Cardeais, os Bispos, são chamados a ser humildes trabalhadores: a servir, não a ser servidos; a pensar menos nos próprios frutos do que nos frutos da vinha do Senhor. E como é estupendo renunciar a si mesmo pela Igreja de Jesus!

Irmãos, irmãs, peçamos a Deus um olhar compassivo e um coração humilde. Não nos cansemos de o pedir, porque é pela senda da compaixão e da humildade que o Senhor nos dá a sua vida, que vence a morte. E rezemos pelos nossos queridos irmãos defuntos. O seu coração foi pastoral, compassivo e humilde, porque o sentido da sua vida foi o Senhor. N’Ele, encontrem a paz eterna! Rejubilem com Maria, que o Senhor exaltou olhando para a sua humildade (cf. Lc 1, 48).

[01672-PO.02] [Texto original: Italiano]

Traduzione in lingua polacca

Jezus udaje się do Nain, uczniowie i „tłum wielki” podążają wraz z Nim (por. Łk 7, 11). Gdy zbliża się do bramy miasta, idzie inny orszak, ale w przeciwnym kierunku: wychodzi, aby pochować jedynego syna owdowiałej matki. Ewangelia mówi: „Na jej widok Pan użalił się nad nią” (Łk 7, 13). Jezus zobaczył i ogarnęło Go współczucie. Benedykt XVI, którego dzisiaj wspominamy, jak również zmarłych w tym roku kardynałów i biskupów, napisał w swojej pierwszej encyklice, że programem Jezusa jest „serce, które widzi” (Deus caritas est, 31). Ileż razy przypominał nam, że wiara nie jest nade wszystko ideą, którą należy zrozumieć lub moralnością, którą należy przyjąć, lecz Osobą, którą trzeba spotkać, Jezusem Chrystusem: Jego Serce bije dla nas mocno, Jego spojrzenie lituje się w obliczu naszego cierpienia.

Pan zatrzymuje się w obliczu cierpienia tej śmierci. Ciekawe jest to, że właśnie przy tej okazji po raz pierwszy Ewangelia św. Łukasza przypisuje Jezusowi tytuł „Pan”: „Pan użalił się nad nią”. Jest nazwany Panem – to znaczy Bogiem, który panuje nad wszystkim – właśnie w akcie współczucia dla owdowiałej matki, która wraz z jedynym synem straciła motyw do życia. Oto nasz Bóg, którego boskość jaśnieje w kontakcie z naszymi nieszczęściami, ponieważ Jego Serce jest współczujące. Wskrzeszenie tego syna, dar życia, który zwycięża śmierć, wypływa właśnie stąd: ze współczucia Pana, który jest przejęty naszym największym nieszczęściem, śmiercią. Jakże ważne jest, aby przekazać to współczujące spojrzenie osobom przeżywającym cierpienie z powodu śmierci ich bliskich!

Współczucie Jezusa ma pewną cechę: jest konkretne. Jak mówi Ewangelia, „przystąpił i dotknął się mar” (por. Łk 7, 14). Dotykanie trumny zmarłego było bezcelowe. Co więcej, w tamtych czasach uważano to za gest nieczysty, który kalał tego, kto go dokonywał. Ale Jezus tym się nie przejmuje, Jego współczucie eliminuje dystanse i sprawia, że staje się bliskim. To jest styl Boga, który polega na bliskości, współczuciu i czułości, oraz używaniu niewielu słów. Chrystus nie głosi kazań o śmierci, lecz mówi owej matce jedynie: „Nie płacz!” (Łk 7, 13). Dlaczego? Czy może płacz to coś złego? Nie, sam Jezus płacze w Ewangeliach. Ale tej matce powiedział: nie płacz, ponieważ gdy przychodzi Pan łzy nie trwają wiecznie, mają swój kres. On jest Bogiem, który, jak prorokuje Pismo, „zniszczy śmierć” i „otrze łzy z każdego oblicza” (Iz 25, 8; por. Ap 21, 4). Uczynił nasze łzy swoimi, aby nam je otrzeć.

Oto współczucie Pana, które wskrzesza owego młodzieńca. Jezus czyni to, w przeciwieństwie do innych cudów, nie pytając nawet matki czy ma wiarę. Dlaczego uczynił tak niezwykły i rzadki cud? Ponieważ w tym przypadku chodzi o sierotę i wdowę, których Biblia wskazuje, wraz z cudzoziemcem, jako najbardziej samotnych i opuszczonych, którzy nie mogą pokładać ufności w nikim innym, jak tylko w Bogu. Wdowa, sierota, cudzoziemiec. Dlatego są oni najbliżsi i najdrożsi Panu. Nie można być bliskim i drogim Bogu, odrzucając ich, cieszących się Jego ochroną i szczególnym upodobaniem, bo to oni przyjmą nas w niebie. Wdowa, sierota i cudzoziemiec.

Patrząc na nich otrzymujemy ważną lekcję, którą streszczę w dzisiejszym drugim słowie: pokora. Sierota i wdowa są bowiem pokorni par excellence, tymi, którzy pokładając całą nadzieję w Panu, a nie w sobie, umieścili centrum swego życia w Bogu: nie polegają na własnych siłach, lecz na Tym, który troszczy się o nich. Ci, którzy odrzucają wszelką pychę samowystarczalności, uznają że potrzebują Boga i ufają Mu, oni są pokorni. I to właśnie ci ubodzy w duchu objawiają nam małość, która jest tak miła Panu, drogę, która prowadzi do nieba. Bóg szuka ludzi pokornych, którzy pokładają nadzieję w Nim, a nie w sobie i swoich własnych planach. Bracia i siostry, to jest chrześcijańska pokora: nie jest jedną z wielu cnót, ale podstawową dyspozycją życia: wierzyć, że potrzebujemy Boga i zrobić Mu miejsce, pokładając w Nim całą ufność. To jest chrześcijańska pokora.

Bóg miłuje pokorę, ponieważ ona umożliwia Mu współdziałanie z nami. Co więcej, Bóg miłuje pokorę, ponieważ sam jest pokorny. Zstępuje do nas, uniża się; nie narzuca się, pozostawia przestrzeń. Bóg jest nie tylko pokorny, jest pokorą. „Ty jesteś pokorą, Panie”, tak modlił się św. Franciszek z Asyżu (por. Uwielbienie Boga Najwyższego, 6: FF 261). Pomyślmy o Ojcu, którego imię odnosi się w pełni do Syna, a nie do Niego samego, i o Synu, którego imię odnosi się w pełni do Ojca. Bóg miłuje tych, którzy usuwają siebie z centrum, którzy nie są centrum wszystkiego, miłuje właśnie pokornych: tych, którzy są do Niego najbardziej podobni. To dlatego „kto się poniża, będzie wywyższony” (Łk 14, 11), jak mówi Jezus. I lubię przywoływać na myśl pierwsze słowa papieża Benedykta: „pokorny robotnik w winnicy Pańskiej”. Tak, chrześcijanie, zwłaszcza papież, kardynałowie, biskupi, są wezwani do bycia pokornymi robotnikami: do służenia, a nie do tego, aby im służono; do myślenia, nie tyle o własnych owocach, ile o owocach winnicy Pana. O, jakże pięknie jest wyrzec się samego siebie dla Kościoła Jezusowego!

Bracia, siostry, prośmy Boga o współczujące spojrzenie i pokorne serce. Niestrudzenie prośmy Go o to, ponieważ właśnie na drodze współczucia i pokory, Pan daje nam swoje życie, które zwycięża śmierć. Módlmy się też za naszych drogich zmarłych braci. Ich serca były pasterskie, współczujące i pokorne, ponieważ sensem ich życia był Pan. Niech w Nim znajdą wieczny pokój. Niech radują się z Maryją, którą Pan wywyższył i wejrzał na Jej pokorę (por. Łk 1, 48).

[01672-PL.02] [Testo originale: Italiano]

[B0764-XX.02]